La classica foto da cartolina delle Highway americane, gli Universal Studios di Hollywood e il gigante Golden Gate di San Francisco... La California è spiagge, grandi foreste, deserto, grattacieli e molto altro ancora...
California Dreamin’, così titolava una famosa canzone dei The Mamas & the Papas negli anni ’60, scritta da Papa John Philips durante un periodo di permanenza in un rigido inverno di New York, descrivendo le foglie gialle, il cielo grigio e un predicatore amante del freddo , lui sognava la California, il caldo di Los Angeles e il cielo blu, dove quasi come un sogno premonitore, vi morì nel 2001.
Morire in California deve essere un esperienza affascinante, a me è andata male e mi sono limitato a visitarla decidendo di comprare un biglietto aereo soltanto due settimane prima della partenza, non sapendo dove andare mi sembrava una destinazione originale e forse non essendomi organizzato al meglio avrei vissuto una vacanza avventurosa come in un film di Oliver Stone.
Sono atterrato in California dopo tre scali e quasi 24 ore di volo, fuori dall’aeroporto di San Diego un vento caldo mi ha accolto facendosi largo tra le palme e le collane di fiori che i ragazzi portavano al collo. Ho dedicato la mattina al vicino porto militare visitando un vascello pirata molto simile a quello del porto antico di Genova e un bellissimo sommergibile russo poco adatto ai claustrofobici. Dalle banchine si potevano scorgere gli alti grattacieli tipici delle città americane e attratto da loro ho raggiunto il centro per un un pomeriggio spensierato tra shopping e fotografie.
Il giorno successivo ecco la Old Town, il primo insediamento spagnolo della città restaurato per i turisti; permette di fare un balzo indietro nel tempo e passeggiare tra suonatori gitani e abitazioni dell’età coloniale gustando una tortillas nei ristorantini delle vie del centro. Ho preso un’auto a noleggio, una Ford Taurus con l’assetto ad altezza strada e un color porpora metallizzato, la radio passava “I Heard it throught the Grapevine” nella cover dei Creedence Clearwater Revival, undici minuti e sei secondi in cui la band di Fogarty esprime una delle loro migliori performance, l’ideale per iniziare il viaggio nella West Coast americana.
Ho seguito le indicazioni del navigatore direzione nord, destinazione Los Angeles. Il giorno volgeva al termine emi sono fermato in un motel di fortuna a Dana Point, un piccolo centro abitato situato sulla sommità di una collina a strapiombo sul Pacifico. Una cena molto simile a quelle di Arnold’s di Happy Days un ottimo hamburger con patatine fritte ascoltando gli Eagles che fuoriuscivano da un vecchio Juke Box.
Il giorno dopo ho trovato una Los Angeles caotica, dispersiva ma affascinante, il centro città mimetizzato tra i grattacieli e i quartieri alternavano sobborghi pericolosi e sporchi a moderne costruzioni e attività commerciali. Ho soggiornato a Santa Monica, una delle località balneari più belle di L.A., dove spiagge di sabbia gialla sembravano invitarmi a prendere il sole insieme a giovani di ogni sesso e nazionalità. Santa Monica è una dei luoghi più belli e noti in California e proprio per questo motivo è stato difficile trovare un motel libero, ma per la modica cifra di 17 dollari ne ho scelto uno dentro un’autofficina, il mio vicino di stanza era un Pastore Tedesco e tra un motore rotto e una batteria da cambiare il gestore mi faceva vedere la stanza… Un ambiente spoglio e sporco, con tracce organiche tra le lenzuola, sicuramente mai cambiate con bruciature di sigarette e un mozzicone spento al loro interno, la televisione aveva probabilmente trasmesso l’allunaggio di Armstrong nel 1969 e la doccia si distingueva da una cannetta per l’acqua solo per la tenda.
Non ho accettato e sono riuscito a sistemarmi solo nel pomeriggio, comunque in tempo per un bagno nell’oceano freddo e per sdraiarmi a fianco a una dozzina di foche che si scaldavano al sole. Uno spettacolo indimenticabile, soprattutto per chi come me ama la natura e gli animali. Verso sera le spiagge si riempivano di surfisti intenti ad accendere bracieri per grandi grigliate mentre lungo i moli di legno decine di persone pescavano e vendevano ai ristoranti guadagnando qualche dollaro per vivere la giornata successiva.
Nei giorni successivi, dopo aver visto le celebri “lettere sulla montagna” e visitato gli Universal Studios di Hollywood, ho raggiunto Santa Barbara dedicando una giornata al mare e allo shopping, in un negozio dell’usato ho trovato alcuni vinili di Neil Young e i Crazy Horse, manifesti pubblicitari degli anni ’60 e la giacca di pelle di Fonzie, almeno così diceva l’etichetta. Santa Barbara è una famosa cittadina di villeggiatura, nota per le sue spiagge e per aver dato il nome a un noioso telefilm degli anni ’80; lungo le vie che portano al mare fiori colorati sui muri intervallano negozi alla moda incastonati in costruzioni che riportano alla mente lo stile coloniale ispanico.
Proseguendo in direzione nord ho incontrato Monterey, un motel immerso nel verde mi ha permesso di ricaricare le batterie per il giorno successivo, 200 km mi separavano dalla mitica San Francisco. Prima di partire, dopo una lauta colazione, ho fatto il pieno di benzina perché avevo letto che la strada sarebbe stata praticamente priva di rifornimenti… non volevo rischiare di spingere la Taurus. Lungo i 200 km di strada solo oceano e natura, distese di sabbia frequentate da foche e gabbiani, e un saliscendi asfaltato che si perde in prossimità dei promontori, la classica foto da cartolina delle Highway americane.
Ho incontrato anche un ciclista, un homeless, uno dei numerosi senzatetto americani… Si riposava con la bicicletta al fianco, stremato per la fatica e il pensiero dei km ancora da percorrere. Questo incontro di lavoro è rimasto impresso nella mia mente per una frase che mi ha detto quell’uomo “L’America tanto ti dà, tanto ti toglie”, e detta da una persona che come casa ha una bicicletta, inevitabilmente porta a riflettere.
La baia di San Francisco mi aspetta agitata, in una giornata grigia e ventosa che non toglie nulla al fascino delle cartoline o di quei poster colorati che vendono all’Ikea insieme alla cornice. Quello con la foto del Golden gate, il ponte sospeso più grande del mondo… mi sono deciso a scattarla personalmente attraversandolo in entrambe le direzioni per cogliere le varie angolazioni.
Già dopo i primi passi in città mi sembrava di essere in un film, San Francisco, proprio quella dei ripidissimi saliscendi con persone di ogni tipo che appaiono e scompaiono al volo dalle Cable Cab per tornare a casa o andare al lavoro; Chinatown, uno dei quartieri cinesi più grandi al mondo, il porto , dove ho mangiato un granchio appena pescato e degli ottimi gamberoni fritti al Bubba Gump, si proprio quello di Forrest Gump.
“Se stai andando a San Francisco mettiti dei fiori nei capelli”, così cantava Scott Mc Kenzie negli anni 60 e anche se i fiori non ci sono più , un’aria di libertà si respira ancora passeggiando per la città anche solo osservando l’abbigliamento delle persone o ascoltando la musica che passa la radio o suonata da musicisti di strada. La sera ho cenato in uno dei centinaia di ristoranti italiani che invadono il centro e il giorno dopo ho raggiunto alla storica prigione di Alcatraz.
Alcatraz si trova nel bel mezzo della baia di San Francisco, pochi km da attraversare con un traghetto che approda sull’isola di massima sicurezza in venti minuti di traversata. Il carcere si presenta allo stato attuale come era nei trent’anni in cui è stato aperto, ovvero lugubre, freddo e ventoso , un luogo dove evadere è l’unico pensiero per un detenuto e le possibilità praticamente nulle, solo pochi ci sono riusciti, ma di loro nessuno conosce la sorte, se hanno resistito alle gelide acque dalla baia o se hanno cominciato una nuova vita sotto falso nome. Solo 1500 detenuti hanno soggioranto nelle scomode e strette stanze di Alcatraz, il più celebre è sicuramente Alphonse Gabriel Capone, meglio conosciuto come Al Capone, il gangster di origine italiana più famoso al mondo, sicuramente non un vanto per il nostro paese.
Ritornato dall’isola ho attraverso lustrascarpe e band musicali agli incroci delle strade, uomini in carriera con abiti firmati e senzatetto che frugavano nei rifiuti alla ricerca di qualcosa di utile. Come accennato in precedenza, i senzatetto sonoveramente tanti in America… nelle grandi città e nei piccoli centri, nel deserto e nei boschi, un carrello e una montagna di abiti e oggetti in equilibrio instabile rappresenta la loro casa.
Ho abbandonato la baia dopo aver pranzato su uno dei numerosi moli del porto, con rammarico e con la promessa di ritornare presto a riassaporare il brivido del vento e delle piccole scosse telluriche che accompagnano le giornate di una delle più belle città degli States.
San Francisco è il giro di boa della California, abbandonato il turismo classico fatto di shopping e visite guidate, ho deciso di ripiegare verso l’interno e attraversare il cuore dello stato. La prima città che ho incontrato è Fresno, calda come l’inferno e brutta come il peccato, l’unica attrazione un cinema anni 50 con i cartelloni e l’insegna immutata nel tempo. Ho incontrato scoiattoli grossi come gatti, un culturista che posava dentro una fontana e diverse persone che presumibilmente dormivano su panchine o aiuole. I negozi erano chiusi e quei pochi erano in lingua spagnola tanto da ricordare, come gli stessi abitanti, una siesta messicana.
Ho pensato che non sarebbe stato il posto ideale dove passare la notte e mi sono spinto sino alla tappa successiva, Sequoia National Park. La strada Da Fresno non è breve, guadagnavo il monte mentre il sole iniziava a calare e rendere i colori più caldi e la temperatura più fresca. Ho pagato l’accesso al parco, e con la cartina ho cercato i pochissimi villaggi con letto disponibili, ma il parco è immenso e la luce ormai era un vago ricordo, solo gli abbaglianti mi facevano strada tra i grandi alberi che coprivano il cielo. Il mio sogno di dormire immerso nella natura si era fatto realtà quando anche l’ultimo villaggio mi aveva chiuso la porta in faccia costringendomi a passare la notte in macchina… Se decidete di dormire nel Sequoia Park sarebbe opportuno prenotare da casa o tramite agenzia la camera, in alternativa sceglietevi una comoda macchina.
La Ford Taurus era scomoda oltre che brutta, ma almeno aveva un tetto e il riscaldamento a portata di mano, mi chiusi all’interno in compagnia delle patatine al mais “Guerrero” ascoltando una raccolta rock acquistata in una specie di autogrill americano. I rami degli alberi creavano un fitta trama che rendeva impossibile scorgere le stelle, rumori sinistri e fruscii tra le foglie mi inquietavano e feci fatica a prendere sonno.
Quando un timido chiarore si è poi fatto largo attraverso i tronchi, ho sgranato gli occhi e guardato l’ora, erano le sei del mattino… Acceso il riscaldamento, sono rimasto a guardare per qualche minuto fuori dalla macchina, pensando di scendere per svolgere le funzioni primarie, ma qualcuno me lo impedì… un orso con tre cuccioli stavano trafficando tra i cespugli alla ricerca di cibo; ho preferito non essere io la loro colazione.
Dopo una colazione nella mensa di un camping, sono partito alla ricerca della foresta Gigante; sono rimasto estasiato davanti agli alberi più grandi del mondo, sono passato con la macchina sotto una galleria scavata nel tronco di una sequoia abbattuta e le pigne erano tre volte più grandi del mio 45 di piede. Per non parlare della Generale Shermann, la sequoia più grande del parco e una delle piante più grandi del mondo, 83 mt di altezza, oltre 1400 mt cubi di volume e circa 30 mt di circonferenza, al suo cospetto è facile sentirsi degli gnomi.
Sono sceso fino alla Death Valley dove il caldo del deserto strozza l’aria condizionata della macchina e nelle strade polverose è facile trovare animali morti sul ciglio della strada, si percepivano almeno circa 50 gradi dei 42 segnalati sul termometro e la paura di un guasto alla macchina mi costrinse a sostare nel primo centro popolato più vicino, Calico Ghost Town. Il nome non prometteva nulla di buono ma ho scoperto poi esser un vecchio paese costruito alla fine del ‘800 per sfruttare una miniera d’oro. Una volta esaurito il prezioso materiale il paese è stato abbandonato così come era, in perfetto stile Western, con tanto di saloon, ufficio dello Sceriffo, prigioni e spazio a sufficienza per uno scontro all’ok corral. Ho acquistato un cappello da Cow Boy, utilissimo per ripararsi dal sole , e ho ripreso a viaggiare lasciandomi la California alle spalle sino a superare il confine con l’Arizona, ma questa è un’altra storia, un’altra avventura…
Diego Arbore