In Italia scontiamo l'assenza di adeguati investimenti in politiche formative e del lavoro; per rispondere alla disoccupazione è necessaria una seria riforma dei servizi pubblici e privati per l'impiego. L'esperienza dei CPI della Provincia di Genova
Praticamente ogni giorno televisioni, giornali e mass-media informano i cittadini sui dati allarmanti che sanciscono una progressiva quanto inesorabile crescita della disoccupazione in Italia. Nel 2013 supereremo la soglia reale dei 3 milioni di senza lavoro; tra questi, la categoria dei giovani, è ormai ad un passo dal 40% di disoccupazione (ma già oltre il 50% nel Mezzogiorno).
La riforma del Lavoro Fornero (Legge 92/2012) – entrata in vigore otto mesi orsono – non ha avuto gli esiti sperati. D’altra parte non va dimenticato che essa è operativa per meno della metà, impantanata tra le maglie della burocrazia e la carenza di risorse economiche. Ma è bloccata pure la leva che dovrebbe farla decollare, ovvero una seria riforma dei servizi all’impiego, pubblici e privati, e della formazione professionale.
«Senza una rete di servizi al lavoro veramente efficaci, in grado di offrire a chi perde il posto una nuova opportunità, il mercato continuerà ad essere opaco ed inefficace – scrive Walter Passerini, editorialista de La Stampa (02-03-2013) – vinceranno le solite raccomandazioni, le amicizie, le relazioni pericolose. La formazione professionale è da tempo frantumata in venti sottosistemi regionali e non è stata creata alcuna cabina di regia nazionale. La situazione è grave: serve un progetto condiviso che alimenti una stagione di responsabilità da proporre al Governo che verrà. La questione del lavoro, la questione salariale e la questione previdenziale sono legate tra di loro e ciò che si concerta oggi ha ripercussioni sul futuro. All’orizzonte non vi sono solo i tre milioni di senza lavoro ma gli otto milioni di persone che già oggi soffrono di un forte disagio occupazionale».
I Centri per l’impiego (CPI), nati nel 1997 sulle ceneri degli ex Uffici di Collocamento, operano a livello provinciale secondo gli indirizzi dettati dalle Regioni. In Italia – tra CPI ed agenzie private del lavoro – si contano alcune migliaia di sportelli con circa 20 mila dipendenti, dei quali 10 mila nei CPI. Solo a titolo di paragone, in Germania il personale dei CPI pubblici ammonta a 74 mila dipendenti; in Gran Bretagna è di 67 mila unità.
L’effettiva funzionalità dei servizi per l’impiego italiani è messa sotto accusa dai numeri: si parla di appena il 4% come dato medio dell’intermediazione pubblica domanda – offerta di lavoro (a cui si affianca il 3% delle agenzie private), contro il 13% della Germania ed il 7,7% della Gran Bretagna.
«Innanzitutto si tratta di dati che vengono raccolti in maniera errata o quantomeno contestabile – spiega Michele Scarrone, Direttore della Direzione Politiche Formative e del Lavoro della Provincia di Genova – Sono stime desunte da domande rivolte ai lavoratori, spesso attraverso un’indagine telefonica, ai quali si chiede se hanno trovato lavoro o meno, mediante i servizi pubblici. Su un campione di 100 persone intervistate, è facile che solo 4 di queste si ricordino di essere, in qualche maniera, transitate dai CPI. Un lavoratore potrebbe aver visto un annuncio sulla bacheca del CPI ed aver stabilito un contatto personale andato a buon fine, quindi una mediazione vera e propria, ma gli strumenti utilizzati non riescono ad intercettarla. Il sistema di monitoraggio, insomma, non è statisticamente valido».
Per quanto riguarda la Provincia di Genova «Il 30% delle persone prese in carico dai CPI trova lavoro dopo aver seguito un percorso fatto di colloqui, orientamenti, avviamenti con il servizio Match, tirocini o seminari promossi dai CPI – afferma Scarrone – Questo 30% è un dato attendibile perché rilevato tramite l’incrocio delle nostre banche dati sui servizi erogati e le attivazioni eseguite. In base alla Legge, infatti, tutte le aziende che applicano un qualsiasi contratto di lavoro sono tenute a comunicarlo alla Provincia». Secondo il dirigente non si può fare di tutta l’erba un fascio «C’è una forte disomogeneità a livello nazionale. Al sud la situazione è indubbiamente difficile ma anche al nord ci sono differenze tra una provincia e l’altra anche. La media del 4%, però, è grossolana. Soprattutto al settentrione, ma non solo, ci sono CPI con esperienze di eccellenza».
Le domande strategiche che l’intero universo politico dovrebbe porsi sono almeno due: servono i servizi pubblici per l’impiego? E qual è la loro funzione? Quesiti che ancora attendono risposte convinte mentre nell’aria aleggiano ipotesi di parziale o addirittura totale privatizzazione.
«I servizi pubblici per il lavoro sono necessari per garantire l’universalità del servizio – afferma Luigi Olivieri, dirigente del Settore Formazione e Lavoro della Provincia di Verona, alla rivista Work Magazine (18-02-2013) – comprendendo disabili e soggetti particolarmente deboli che la logica di profitto delle agenzie private escluderebbe».
«Il nostro mestiere è creare le condizioni di maggiore occupabilità – spiega Michele Scarrone, direttore della Direzione Politiche Formative e del Lavoro della Provincia di Genova – L’obiettivo è avvicinare il più possibile la persona alle aziende che ricercano forza lavoro. Bisogna uscire dall’equivoco: l’intermediazione non è l’attività principale dei CPI. La mission è quella di fornire orientamento al lavoro. Per condurre le persone a comprendere il loro percorso professionale, prendere consapevolezza di eventuali lacune affinché esse siano colmate. I CPI promuovono corsi di formazione, voucher formativi, tirocini, seminari, ecc., tutto questo lavoro va a formare il complesso dei servizi per l’impiego».
La difficoltà del sistema dei centri per l’impiego deriva ovviamente dalla esiguità delle risorse. «In Italia si investe circa 1/7 – 1/8 di quello che investono in altri Paesi europei più evoluti – sottolinea Scarrone – Le risorse per i CPI sono insufficienti e pure il numero di addetti. È del tutto evidente quanto sia necessaria una seria riforma dei servizi pubblici per l’impiego». Presso altre realtà del vecchio continente – vedi la Germania – le spese per le politiche attive sono il doppio delle nostre. Nel Bel Paese, invece, se non vogliamo spendere soldi solo per le politiche passive di sostegno al reddito dei disoccupati, occorre una profonda ristrutturazione della rete dei servizi per costruire politiche attive.
L’ESPERIENZA DEI CPI DELLA PROVINCIA DI GENOVA
Gli iscritti ai CPI della Provincia di Genova al 31/12/2012 sono 50450. Quindi in leggero aumento rispetto ai 49069 del 2011. Ma neppure di molto considerando la difficile congiuntura che stiamo attraversando.
I colloqui di orientamento individuali (1° e 2° livello) erogati nel 2012 sono stati poco più di 41000 (in linea con il 2011); compresi i seminari collettivi: 49400 (ossia l’insieme delle azioni di orientamento).
I voucher erogati per partecipare ad attività formative che la Provincia ha accreditato: 13463 (in aumento rispetto agli 11291 del 2011) a 8191 persone (7087 nel 2011), con una media di 1,64 per persona (1,59 nel 2011).
Poi ci sono i tirocini «Uno dei migliori strumenti che abbiamo a disposizione – precisa Scarrone – che continuiamo a promuovere nonostante le risorse siano quasi pari a zero. In gran parte sono sostenuti dalle aziende e controllati della Provincia. Si è creato un rapporto virtuoso con molte imprese che in pratica svolgono il ruolo di “allenatori” delle persone, alcune delle quali, al termine del tirocinio rimangono in “squadra”». I tirocini promossi nel 2012 sono stati 1590 (1691 nel 2011). Secondo il report sugli esiti occupazionali del servizio «Trascorsi 12 mesi dal termine del tirocinio circa il 60% degli utenti risulta occupato», sottolinea Scarrone.
L’altro punto di forza dei CPI della Provincia di Genova è il servizio Match (attivo da 12 anni) che favorisce l’incontro domanda – offerta segnalando lavoratori alle aziende che ne fanno richiesta. Negli ultimi anni, però, i numeri di Match sono progressivamente scesi in seguito al drastico calo di assunzioni. Nel 2012 il servizio ha ricevuto 1200 richieste dalle aziende (1701 nel 2011) per un totale di 1650 posizioni lavorative aperte (2390 nel 2011); i CPI hanno segnalato quasi 10 mila curriculum alle imprese richiedenti (12532 nel 2011).
Attualmente 80 dipendenti della Provincia lavorano nei 6 CPI di Genova. Prima erano 7 ma recentemente – a causa della spending review che sta mettendo in ginocchio le Province – ha chiuso i battenti il CPI di Nervi. Gli addetti svolgono prevalentemente attività amministrativa: iscrizioni, compilazione delle liste, pratiche di mobilità, di disoccupazione, comunicazione obbligatoria alle aziende, ecc. I servizi specialistici per il lavoro (ovvero le politiche attive) vengono svolti da un’altra ottantina di lavoratori in appalto del Consorzio Motiva: informazione, colloqui di orientamento, servizi di incrocio domanda – offerta, mediazione culturale, avviamenti a formazione, a tirocini, seminari, ecc.
«Mi auguro che siano studiate delle leggi in grado di ridurre l’impatto delle attività amministrative sul funzionamento dei CPI – sottolinea Scarrone – questo è uno degli elementi che distoglie risorse dalla promozione di politiche attive di cui, invece, avremmo gran bisogno». Tuttavia, le attività amministrative sono importanti perché «Permettono di individuare chi sono i disoccupati e qual è il loro livello di attivazione nella ricerca del lavoro – spiega il direttore – Se una persona dopo il colloquio non si presenta più oppure non segue le proposte dei CPI viene cancellato dalle liste».
Ovviamente con un aumento del personale e finanziamenti più consistenti si potrebbe dedicare maggiore attenzione alle politiche attive. «Bisogna decidere se andare avanti per slogan oppure riformare il sistema dei CPI mettendoli nelle condizioni di poter funzionare a dovere – continua Scarrone – La cartina tornasole della qualità dei servizi offerti è rappresentata dal rapporto tra numero di addetti dei CPI e numero dei disoccupati». In altri termini c’è troppa disparità in tale rapporto per poter pensare che il pubblico possa fornire una risposta adeguata: in Italia 1 solo addetto deve seguire 150 disoccupati; in Germania 48; in Gran Bretagna 24.
Per quanto riguarda il finanziamento ai servizi pubblici per l’impiego «Varia di anno in anno ed in pratica dipende da fondi extra – afferma Scarrone – In particolare il Fondo Sociale Europeo, che ci permette di mantenere l’appalto con il Consorzio Motiva, risicati fondi nazionali e regionali, zero provinciali (fatti salvi gli stipendi dei dipendenti)».
Secondo Giovanni Daniele, dirigente dei Servizi Per l’Impiego della Provincia di Genova «Il problema principale è la mancanza di stabilità delle risorse a disposizione. Noi lavoriamo su progetti di massimo 1 anno, 9 mesi o addirittura 6 mesi. Di conseguenza non possiamo fare programmazione che in questo campo risulta fondamentale». Dunque i contributi arrivano ma non sono finalizzati a sostenere un sistema organico di servizi per l’impiego. «Sono finanziamenti che spesso sostengono soltanto le emergenze contingenti – continua Daniele – rivolgendosi esclusivamente ad un target specifico: una volta sono i cassaintegrati, un’altra volta sono i giovani, ecc.».
Nonostante ciò «La Provincia, con grandi sforzi, da almeno dieci anni cerca di dare continuità ai servizi pubblici per l’impiego – afferma il dirigente – investendo su un set di servizi articolati per tutti i target e facendoli confluire in una struttura che, per quanto possibile, sia stabile nel corso del tempo».
Senza dimenticare un dato di fatto, spesso trascurato «I CPI non possono creare lavoro ma piuttosto strumenti per aumentare l’occupabilità delle persone – ribadisce Giovanni Daniele – Per affrontare la delicata questione del lavoro ci vuole ben altro: innanzitutto delle concrete politiche di sviluppo che da lungo tempo attendiamo. Occorre una visione integrata tra Regioni, Province e Comuni. Con una stretta connessione tra politiche del lavoro e della formazione».
Insomma, bisogna creare sinergia «Le politiche formative e del lavoro finché non sono collegate rimangono monche – aggiunge Daniele – Inoltre, è fondamentale inserire in questo contesto anche il sistema dell’istruzione».
Eppure esempi virtuosi a cui guardare ce ne sarebbero, vedi il più volte citato modello tedesco. «In Germania formazione ed istruzione hanno pari dignità – conclude Daniele – Non ci sono scuole di serie A e di serie B come accade in Italia con licei ed istituti professionali. L’efficienza e l’efficacia del modello tedesco insegna che è necessaria l’integrazione tra tutte le politiche sopracitate. Ma occorre avere in mente un modello omogeneo per l’intera nazione, mantenendo ovviamente le singole peculiarità territoriali».
Matteo Quadrone