L'analisi di Andrea Giannini ci aiuta a comprendere meglio il sistema in cui viviamo. Le difficoltà di un'emancipazione nell'autonomia di pensiero portano al conformismo dando origine alle masse. Queste rappresentano il contesto ideale per chi esercita il potere: se gli individui si muovono in branco, basta riuscire a spostarne una parte affinché anche gli altri si muovano nella stessa direzione. Ma qualsiasi potere troppo forte, privo di contraltare, prima o poi diventa una minaccia...
Riprendiamo il discorso della settimana scorsa sui meccanismi di formazione del giudizio politico. Le difficoltà di un’emancipazione nell’autonomia di pensiero rafforzano il potere e rendono il conformismo la scelta più razionale e sicura. Ma ogni potere troppo forte, privo di contraltare, prima o poi diventa una minaccia. L’attuale sistema, sorto dopo la fine della contrapposizione USA-URSS, non fa eccezione: i danni saranno evitati solo controbilanciando questa egemonia.
Quando il comportamento dei singoli tende a convergere verso la media, diventando irrilevante rispetto al movimento collettivo, gli insiemi sociali diventano masse. Esse sono ovviamente il contesto ideale per chi esercita il potere, poiché sono più facili da gestire: se gli individui si muovono in branco, basta riuscire a spostarne una parte affinché anche gli altri si muovano per inerzia nella stessa direzione. Esistono molti modi per assicurarsi questo tipo di controllo sociale, nonostante la democrazia rappresentativa. Un esempio sono le tecniche di spin descritte da Marcello Foa su queste pagine, che hanno per scopo non più l’eliminazione delle minoranze critiche, bensì la loro etichettatura, un meccanismo basato sull’attivazione selettiva del pregiudizio.
Quello che mi preme sottolineare, tuttavia, è che il condizionamento dall’alto delle masse – che indubbiamente c’è, come c’è sempre stato – costituisce solo una parte del fenomeno. Dall’altra parte molto dipende da come le masse stesse, e le minoranze che le compongono, riescono a reagire. Ecco perché è estremamente interessante notare (come abbiamo fatto la settimana scorsa) quanto oggi sia difficile per l’individuo avere a disposizione un contesto protetto entro cui sviluppare un percorso personale di formazione ed emancipazione: perché, se questo contesto è stato demolito, comportarsi come gli altri diventa un meccanismo di risposta perfettamente razionale.
Il conformismo, visto in questa prospettiva, non è più soltanto una debolezza umana: al contrario è una scelta di buon senso. Imitando il comportamento della maggioranza, infatti, si abbassano le probabilità di incontrare degli oppositori, che potrebbero essere in disaccordo con noi, anche se siamo nel giusto. Inoltre, quando siamo in errore, conserviamo comunque il vantaggio di ritrovarci in una compagnia abbastanza larga per poter legittimamente sperare di trovare comprensione e scampare ritorsioni.
È un principio che in Italia, per motivi storici e culturali, capiamo al volo: meglio sbagliare con gli altri, che avere ragione da soli. E questa propensione non può che acuirsi, quando tempi duri aguzzano lo spirito di sopravvivenza e quando capire come stiano davvero le cose richiede sforzi superiori alle possibilità di molti.
Anziché abbandonarci a giudizi sprezzanti ed affrettati, dunque, dobbiamo avere l’obiettività di ammettere che in questo contesto non ci sono facili vie di emancipazione. Costruirsi e saper difendere un’opinione è oggi un lavoro obiettivamente troppo complesso e troppo poco gratificante. Così il singolo tende a seguire la massa, e la massa si fa facilmente controllare dal potere.
Come uscirne?
Proviamo allora, anziché a stigmatizzarlo, a ragionare partendo dal presupposto che nessuna argomentazione razionale sia sufficientemente persuasiva rispetto al primo principio di sopravvivenza: “nel dubbio di cosa convenga fare, meglio non discostarsi troppo da quello che fa la maggioranza”.
Vediamo cosa succede, allora, applicando questo principio alla pratica; e chiediamoci dove sia, nell’attuale congiuntura politica, la maggioranza da seguire. La risposta mi pare piuttosto semplice. Se guardiamo le cose dalla prospettiva dell’Italia, esiste un ben definito sistema di potere articolato su tre piani:
1. Livello nazionale: dopo il ventennio berlusconiano, la forza dominante è la sinistra progressista incarnata dal PD;
2. Livello continentale: il controllo è in mano all’Unione Europea;
3. Livello mondiale: la prima potenza sono gli Stati Uniti.
Si può affermare che si tratti di “un sistema” in quanto, nonostante le differenze e qualche screzio, la Casa Bianca supporta il processo di integrazione guidato da Bruxelles, che a sua volta fa affidamento sulle “forze moderate” come il partito di Largo del Nazareno.
Converrà notare che si tratta di entità storicamente percepite come “buone”: la sinistra, erede dei valori della Resistenza, ha difeso le ragioni dei lavoratori e dei deboli; l’Unione Europea nasce con il crollo del muro di Berlino, la caduta del comunismo e la fine della minaccia di una guerra atomica; gli USA, con tutti i loro difetti, sono però la più antica democrazia esistente, ci hanno liberato dal nazifascismo e poi aiutato col piano Marshall. A ciò si aggiungano tutta una serie di valori morali, politici e scientifici che diamo ormai per acquisiti e che facciamo risalire all’insieme di queste culture.
Perché, allora, dovremmo metterci contro a chi ci ha portato buoni risultati in passato, è percepito positivamente ancora oggi e detiene una forza politica, finanziaria e militare non trascurabile?
Sembra un discorso sensato. Eppure a me viene in mente la storia di quell’asino che, dovendo trasportare del sale e dovendo guadare un fiume, bagnava apposta il carico per alleggerire il peso; fintanto che non gli misero in groppa un carico di spugne, col quale naturalmente affogò. Anche al povero animale dovette sembrare sensato comportarsi come si era sempre comportato: ma non aveva tenuto presente che, banalmente, a volte le condizioni cambiano.
In effetti, se si volesse fare un ragionamento neppure particolarmente approfondito, si potrebbe notare che c’è un prima e c’è un dopo nelle dinamiche globali dal dopoguerra a oggi: e l’evento che giustifica questa spartizione è naturalmente il crollo dell’Unione Sovietica.
Tutto quello che in genere si giudica positivamente del nostro passato – la Costituzione, la ricostruzione nel dopoguerra, il boom economico, lo Stato sociale, la diffusione del benessere e poi il crollo del muro di Berlino e il trattato di Maastricht – è stato sì conseguito sotto l’ala lunga della tutela americana; ma solo fintanto che gli USA sono stati impegnati a competere con l’URSS. Una volta cessata la minaccia concreta di rivoluzioni comuniste, sul modello cinese o cubano, e non appena il mondo si è abituato ad avere a che fare con una sola super-potenza, il capitalismo ha gettato definitivamente la maschera, diventando molto più aggressivo e selvaggio.
Non si tratta di una tesi particolarmente originale. Scrive ad esempio Thomas Piketty: “L’esistenza di un modello diverso [in Unione Sovietica] è stato uno dei motivi per cui sono state accettate nel mondo alcune riforme e politiche progressiste. Fa impressione pensare che in Francia, nel 1920, le maggioranze politiche adottassero sempre più velocemente la tassazione progressiva; si trattava degli stessi che, nel 1914, avevano rifiutato a gran voce l’imposta sul reddito con aliquota al 2%. Lo spauracchio della rivoluzione bolscevica, insomma, faceva sembrare la tassazione progressiva molto meno pericolosa.”
Se accettiamo questa visione; se accettiamo cioè che fosse la forza politica e militare della Russia (quando non i suoi finanziamenti diretti) a rendere credibile la protesta sindacale, e dunque la lotta per maggiori diritti e retribuzioni, e se facciamo un confronto con le disuguaglianze crescenti degli ultimi vent’anni, dovremmo accettare il fatto, allora, che non era l’imitazione del modello politico-economico americano ad essere la strategia vincente, ma il fatto che esso dovesse confrontarsi con un modello alternativo.
La lezione che dobbiamo trarne non è solo storica: è soprattutto politica. Un potere che non incontra un limite, tenderà a comportarsi a suo libero arbitrio: diventerà quindi assoluto (nel senso etimologico di ab solutus, ovvero “sciolto da ogni costrizione esterna”). In fin dei conti è il motivo per cui in una visione liberale dello Stato si considerano tre poteri politici distinti – il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario – da affidarsi a tre soggetti diversi. Non esiste dunque un potere buono o un potere cattivo: l’unico potere buono è quello limitato da un contro-potere.
Naturalmente tra i contro-poteri di una democrazia rientra anche l’opinione pubblica: che però oggi è completamente anestetizzata, per tutti i motivi elencati in precedenza – cosa che rende l’attuale quadro politico particolarmente preoccupante. Ma allora, nel momento stesso in cui ragioniamo in termini di disimpegno politico, confidando nel fatto che un certo partito, una certa istituzione o una certa potenza straniera siano “buoni” o siano comunque “il meglio in circolazione”, di fatto smettiamo di comportarci da contro-potere, smettiamo di fare paura al potere. A quel punto il potere comincia ad agire come viene più comodo a lui: e non si può nemmeno fargliene una colpa, dal momento che noi non ci siamo opposti.
Il conformismo che premia la maggioranza al potere, dunque, è rischioso perché incentiva un uso smodato del potere stesso, che può ritorcersi contro di noi. Ma c’è anche un altro problema: che le maggioranze cambiano. E chi si era esposto troppo, perché spalleggiato dai più, potrebbe pentirsi un domani, allorché dovesse scoprire improvvisamente di essere rimasto solo.
L’ansia tutta italiana di non mettersi contro il potente di turno, che ormai domina completamente il nostro atteggiamento in politica estera, spesso ci fa trascurare un problema decisivo: ossia che sarebbe vitale capire chi avrà potere in futuro. Anche Mussolini, in fin dei conti, pensava di aver fatto la scelta più sicura, quando decise di entrare in guerra a fianco di Hitler, mentre la Germania aveva già conquistato mezza Europa: e come è andata a finire lo sappiamo tutti.
La nostra percezione del mondo (come è successo a tutte le civiltà in tutte le epoche) è condizionata dalla parzialità dei nostri pregiudizi e dai nostri valori, che la supposta superiorità della nostra scienza e la pervasività dei mezzi di comunicazione non mitigano: anzi, esasperano. E dunque potremmo sbagliarci di nuovo.
Oggi, ad esempio, i paesi emergenti non accettano più di giocare secondo le regole imposte dalla finanza occidentale, e fanno le loro mosse. Dal 2014 i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) hanno già la loro banca alternativa al Fondo Monetario Internazionale: l’NDB (New Development Bank). La Russia, a sua volta, guida l’EEU (Eurasian Economic Union), insieme ad Armenia, Bielorussia, Kazakistan e Kyrgyzstan. Alcuni di questi paesi insieme a Russia e Cina sono parte dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, o SCO (Shanghai Cooperation Organization). I cinesi, infine, hanno la loro potentissima AIIB (Asian Infrastructure Investment Bank), di cui fanno parte 57 paesi fondatori di tutto il mondo, Italia compresa.
Come si vede, il mondo non ha un padrone solo. Gli USA sono ancora la maggior potenza militare, ma non tutte le controversie si risolvono sparando: e l’atlantismo si sta facendo oppositori sempre più preparati ed intelligenti (mentre l’Unione Europea è relegata ad un ruolo marginale). In questo contesto non c’è niente di più stupido che abbracciare ciecamente la causa di una parte unica.
Possiamo concludere, dunque, che limitarsi a servire il potere non è mai la decisione più saggia. Un potere non resta solo troppo a lungo: ma finirà per generare, prima o poi, un’opposizione bellicosa. Pertanto la scelta più sensata è sempre quella di osservare con intelligenza le cose e puntare ad equilibrare ogni contrapposizione: perché le transazioni impreviste rischiano purtroppo di essere traumatiche.
Andrea Giannini