All'estero il "dibattito economico" esiste davvero, si sta ripensando l'assetto dell'economia mondiale. Da noi si può assistere a reportage su cassaintegrati e disoccupazione, ma non si discute mai sulle ragioni economiche di questa deriva
Una conseguenza nefasta dell’affermazione dell’ideologia neoliberista negli ultimi trent’anni è stata quella di mandare in soffitta il concetto di responsabilità. Riconosco che questa affermazione possa incontrare vigorose obiezioni. Tuttavia resta il fatto che un capitalismo assoluto è concepibile unicamente se si accetta il presupposto che la libera ricerca del profitto individuale abbia come risultato il benessere collettivo; e in questa prospettiva, a lungo mitizzata, è inevitabile che gli obblighi del singolo verso la società si riducano sensibilmente. Se infatti basta che ognuno resti concentrato sul perseguimento della propria ricchezza personale per fare del mondo, come per l’azione di una “mano invisibile”, un posto migliore, allora una passiva osservanza della legge (cioè non commettere illeciti o reati) sarà sufficiente per sollevare l’individuo da ogni questione di opportunità, liceità o sostenibilità della propria condotta.
Secondo questa visione, dunque, si è responsabili unicamente per la ricchezza che si produce e non per le conseguenze delle proprie azioni, dato che il libero mercato renderà queste conseguenze automaticamente soddisfacenti anche per tutti gli altri. Si tratta ovviamente di un’illusione, una prospettiva utile giusto per potersi auto-assolvere. Occorre invece tornare a dire che anche nella società moderna ogni individuo ha precise responsabilità di cui è chiamato a farsi carico.
Lasciamo da parte le responsabilità morali, perché si tratta di un argomento alquanto spinoso; parliamo piuttosto di responsabilità professionali, soprattutto in relazione a ruoli di pubblica rilevanza. Parliamo dell’informazione. Il modo in cui si fa più o meno bene questo mestiere concorre al processo di formazione dell’opinione pubblica e quindi influenza in modo decisivo le scelte politiche. Per di più questi sono tempi cruciali, in cui chi si occupa di informare dovrebbe avvertire più che in altri momenti il peso della responsabilità della propria funzione: che poi è quella di selezionare e diffondere notizie sulla base della loro verità e rilevanza.
Ora, quanti sono i giornalisti e gli editori in Italia che, cogliendo le implicazioni di quello che fanno, si preoccupano di attenersi scrupolosamente a questi criteri? Purtroppo bisogna andare a cercarli col lanternino. Non alludo qui soltanto a quelli che vengono definiti spesso “gli organi di stampa del potere”, cioè i giornali e i telegiornali vicini ai partiti e ai gruppi industriali; alludo anche a quelle voci che avrebbero la presunzione di far passare un’informazione alternativa, compreso – lo sottolineo – il blog di Beppe Grillo.
In tutti manca ugualmente la capacità (e in alcuni casi, senza dubbio, la volontà) di agganciarsi al livello della discussione che si sta svolgendo all’estero, dove si sta ripensando l’intero assetto dell’economia mondiale. Il curioso effetto è che nel nostro paese si può assistere ogni giorno a dozzine di reportage su cassaintegrati, miseria e disoccupazione, eppure non si discute mai sulle ragioni economiche di questa deriva. Quello che qui da noi viene chiamato “dibattito economico” in realtà non ha nulla a che vedere con quello di cui stanno realmente discutendo gli economisti, i quali invece appaiono schierati su due fronti opposti piuttosto definiti: da una parte i fautori di una regolamentazione dei mercati e delle piazze finanziarie, del ruolo positivo dell’intervento statale e della funzione anticiclica della spesa pubblica (che non è sempre e solo “improduttiva”); dall’altra parte i difensori dell’austerità, quelli che “dalla crisi si esce tagliando la spesa pubblica, facendo sacrifici per essere più competitivi e aprendosi ai capitali esteri” (e che solo a margine si ricordano di dire che anche il sistema finanziario meriterebbe qualche ritocco).
Questi ultimi sono gli unici invitati nei talk-show di casa nostra. E lo si capisce da un semplice fatto: quale è stata l’ultima volta che avete sentito dire che in questo momento converrebbe aumentare la spesa pubblica e non tagliarla? Molto probabilmente non lo avete sentito dire da nessuno. Eppure si tratta della posizione che sta uscendo vincente nel dibattito internazionale, perché il prolungarsi della recessione ha reso evidente quanto fossero controproducenti le misure di austerità e perché le basi scientifiche di questa visione economica si stanno sgretolando: il capo economista del FMI Olivier Blanchard ha fatto dietrofront, ammettendo che le misure “recessive” sono molto più recessive di quello che loro avevano previsto; la “bibbia dell’austerità”, cioè uno studio di Reinhart e Rogoff del 2010 sugli effetti recessivi di un alto debito pubblico, presentava un grossolano errore di calcolo, che è stato scoperto da semplici studenti mentre rifacevano i conti per esercizio (non è vero cioè che i paesi con un debito/PIL superiore al 90% siano condannati alla recessione: al contrario crescono ad una media del 2,2%). Si dirà che fare spesa non si può, perché siamo costretti dai nostri partner europei ad una ristretta disciplina di bilancio. Ed in effetti è vero: tant’è che proprio questo fatto, cioè l’evidenza che esistano forti interessi contrari ad una strategia espansiva, sta attirando sempre più critiche sul progetto dell’euro. In Germania è nato “Alternative fuer Deutschland”, un partito euroscettico che promette di scompigliare le carte della campagna elettorale; l’economista francese Jaques Sapir commenta il report di una fondazione tedesca sui possibili scenari per concludere che una dissoluzione concordata dell’eurozona sarebbe la soluzione allo stesso tempo più realistica e ragionevole; Martin Wolf sul Financial Times spiega perché è intrinsecamente impossibile seguire la strategia della Germania tutti insieme; Oskar Lafontaine, ministro delle finanze tedesco all’epoca dell’introduzione dell’euro, dichiara che ormai è «necessario abbandonare la moneta unica»; infine il solito Paul Krugman sentenzia: «entrando nell’euro l’Italia ha trasformato se stessa, da un punto di vista macroeconomico, in un paese del terzo mondo con debiti denominati in valuta straniera; e si è esposta a crisi di debito».
Potrei andare avanti per molto, ma quello che importa è che tutti questi pareri avrebbero un enorme rilievo per noi che cerchiamo di capire se valga la pena strangolarci per tenerci l’austerità e l’euro: eppure vengono sistematicamente ignorati. Lilly Gruber a Otto e mezzo imbastisce un finto dibattito invitando in trasmissione da una parte Alberto Alesina e Lorenzo Bini Smaghi, che in realtà sono sostanzialmente concordi sull’idea di austerità, e dall’altra Norma Rangeri, che blatera per tutto il tempo sulla fine del capitalismo, come se l’unica alternativa sia il comunismo. A Servizio Pubblico Santoro invita il pittoresco Paolo Becchi solo per parlare delle sue infelici dichiarazioni: e quando il professore prova ad accennare al problema dell’euro e a quello dell’atteggiamento mercantilista della Germania, viene confutato da Travaglio con il pregnante argomento che i Tedeschi hanno più eolico di noi.
Attendiamo di vedere la puntata di Report di domenica prossima nella speranza che migliori un po’ il quadro complessivo; ma nel frattempo bisogna concludere che i media non stanno restituendo le reali proporzioni di quello che sta accadendo. Corruzione, evasione, sprechi, Casta, malgoverno e processi di Berlusconi sono tutti problemi che meritano di essere commentati e denunciati: ma NON hanno causato la crisi. E gli Italiani hanno il diritto di saperlo, se non altro per togliersi di dosso l’errata impressione che, se siamo a questi punti, sia soprattutto per colpa nostra.
Per questo riequilibrare il dibattito è oggi una responsabilità precisa di chi fa informazione. Domani, quando sarà evidente come stanno le cose e ci si chiederà giustamente come sia stato possibile che nessuno abbia raccontato per tempo la verità, non si potrà invocare il “senno di poi” o dire che la situazione era difficile da decifrare: perché, come ho cercato di dimostrare, è ormai tutto perfettamente chiaro, almeno per quello che concerne gli estremi della questione. Rimane solo da capire perché il mondo dell’informazione sia così indietro. In Francia è uscito un film-documentario, “Les nouveaux chiens de garde”, che ha messo in evidenza i legami esistenti tra media e gruppi politico-industriali. Emerge che uomini di potere e giornalisti condividono gli stessi luoghi di vacanza, partecipano agli stessi “club” riservati ed elitari, e a volte instaurano persino relazioni sentimentali (di solito la bella giornalista con il politico); ma soprattutto emerge la forte partigianeria mediatica a favore dei teorici di un’ideologia economica che pure è stata smentita per la sua incapacità di prevedere e poi correggere la crisi. Fa impressione constatare come negli ultimi trent’anni i Francesi si siano sentiti dire esattamente le stesse cose che ci sentiamo dire anche noi: “non volete fare le riforme”, “non siete produttivi”, “le tutele sociali sono un ostacolo allo sviluppo”, “avete vissuto sopra i vostri mezzi”, “dovete fare le liberalizzazioni”, “non dovete dare le colpe alla globalizzazione, ma cambiare voi stessi”, eccetera. Per cui, se oggi i media continuano ad attenersi a questo canovaccio, allora si dovrà ammettere che si rendono complici di una propaganda di parte. Non sapremo mai chi per ignoranza o chi per dolo: ma tutti si dovranno assumere la responsabilità di non aver saputo fare il loro lavoro.
Andrea Giannini