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“Cosa fare a Denver quando sei morto” è il titolo di un film con Christopher Walken e Andy Garcia, non sapere cosa fare a Denver quando sei vivo era la mia situazione. Ma i colpi di scena sono sempre all’ordine del giorno nei miei viaggi...
Una notte, da qualche parte nel Colorado, la pioggia picchiava forte sul tetto della macchina,così forte da lasciare intravedere solo qualche luce colorata di un motel e una sagoma di Elvis con in mano un cartello recante la scritta illuminata “vacancy”.
Ho parcheggiato e sono sceso riparandomi con la giacca fino ad arrivare davanti alla porta d’ingresso, sono entrato lasciandomi alle spalle il tintinnio di un campanello e mi sono diretto verso il bancone del bar in attesa di essere notato da qualcuno. Lo sgabello al mio fianco era occupato da un uomo di carnagione olivastra con baffoni a cascata e un cappello da cow-boy, sorseggiava whisky on the rock con aria annoiata, batteva il piede al ritmo di Bad Moon rising dei Creedence e il suo volto ricordava terribilmente il sergente Garcia del telefilm Zorro ma dai lineamenti meno affabili.
Nell’aria passava un odore di birra ormai impregnato nel legno scuro del locale. Allungo una mano per prendere due noccioline americane quando da una tenda a stelle e strisce esce una cameriera in completo rosa con una coroncina di stoffa in testa; mastica un chewin-gum e mi regala un sorriso cordiale: “di cosa hai bisogno?” Lanciando nella sputacchiera il guscio della nocciolina le dico che stavo cercando un letto caldo e una doccia, lei mi rispose con sicurezza “Straniero, sei nel posto giusto”. Ero capitato in quel posto senza nome in maniera casuale, il primo paese distava una decina di km, intorno solo alberi e monti immersi nel buio, dietro al bar sorgeva un grosso casermone su due piani contenente le oltre trecento stanze del Motel.
Matteo, il mio compagno di viaggio, aveva atteso tutto il tempo in macchina, nel frattempo la pioggia era cessata lasciando fango e pozzanghere che riflettevano le luci colorate dei neon. Ci siamo incontrati fuori dal locale e prima che mi chiedesse lumi e impressioni avevo già la chiave in mano, per venti dollari a notte qualsiasi cosa andava bene, anche un motel frequentato da camionisti di passaggio, uno di quei posti dove non ti vorresti mai trovare in circostanze normali.
Per raggiungere la nostra stanza abbiamo percorso il lungo corridoio del casermone incrociando gli sguardi di alcuni sudamericani dall’aria poco raccomandabile lasciandoci alle spalle stanze aperte e buie che emanavano odori acri e fetori di piedi.
Mi sono fatto largo tra i fumi e le lattine vuote della sala TV avendo il buon gusto di salutare tutti i presenti che risposero con un piccolo cenno del capo o alzando la mano che reggeva il grosso sigaro, ai loro occhi ero un forestiero capitato li per caso: non avevano tutti i torti. Un neon in fin di vita illuminava il tratto finale del corridoio al secondo piano, l’ultima porta recava il numero 317 scritto con pennarello nero e pessima grafia, quella era la nostra camera. L’arredamento era composto dal solo letto matrimoniale e un piccolo cesso inteso come sanitario, messo li senza un divisorio, la doccia era in comune con le altre trecentosedici stanze e l’armadio sicuramente era stato rubato.
Siamo usciti per cena intorno alle ore 20 locali, decidiamo di seguire il consiglio della cameriera che ci ha indirizzato verso una steakhouse a qualche km di distanza. Attraversiamo il buio della valle con gli abbaglianti accesi, tra ululati di coyote e tassi kamikaze e arriviamo di fronte al ristorante, una sorta di baita completamente in legno. Ho spinto la porta saloon come nel vecchio west e siamo entrati con il passo da cow-boy e l’aria un po’ smarrita, un profumo di carne alla brace ci ha accolto e in pochi minuti eravamo già seduti. Il locale era composto da un banco di macelleria dove si poteva scegliere la propria bistecca, una grande piastra simile a un tavolo da biliardo posto al centro del salone per cuocere e intorno solo tavoli. I bocconi si scioglievano in bocca e si fondevano con il gusto del condimento nero a base di cipolle spennellato in cottura, è stata la carne più buona che abbia mai mangiato, quel sapore intenso e selvaggio era così coinvolgente che ho dovuto cuocere un’altra bistecca.
Finita la cena abbiamo percorso la stessa strada ma illuminata dalla luna che nel frattempo si era svegliata, abbiamo posteggiato la macchina siamo entrati nel bar del motel, l’uomo con i baffi era seduto nello stesso sgabello ma il suo piede questa volta era fermo e i suoi occhi coperti dal cappello, russava e davanti a lui aveva qualche bicchiere vuoto di troppo.
Una volta in camera abbiamo blindato la porta con una sedia e ci siamo messi a letto stanchi delle centinaia di km macinati durante la giornata. La notte scorreva serena tra latrati di volpi e canti di civette, la luna si affacciava timidamente dal monte e la sua luce impregnava le fluorescenti tende ingiallite dal fumo. Improvvisamente due spari tagliano in due la quiete, mi sveglio di soprassalto, alle tre del mattino non potevano essere cacciatori e il rumore non era quello di un fucile, era una pistola. Istintivamente abbiamo acceso la luce, eravamo pronti a scappare ma una volta capito che non sarebbe stata una buona idea abbiamo spento tutto e siamo restati in stanza ad attendere l’evolversi della sparatoria. Le ultime ore sono passate senza colpi di scena e di pistola, il mattino seguente di buon ora siamo ripartiti senza guardare indietro attraverso le verdi vallate del Colorado.
Dopo una sosta da McDonald’s e duecento km di strada, avvistiamo in lontananza i grattacieli di Denver svettare tra le nuvole, in contrasto con la natura e le montagne che li circonda. La città non spicca certo per la sua originalità, qualche spazio verde e i volti dei giocatori di scacchi nelle vie del centro erano le uniche scappatoie dalla morsa della noia.
“Cosa fare a Denver quando sei morto” è il titolo di un film con Christopher Walken e Andy Garcia, non sapere cosa fare a Denver quando sei vivo era la mia situazione. Ma i colpi di scena sono sempre all’ordine del giorno nei miei viaggi e, dopo aver visitato lo stadio dei Denver Nuggets, abbiamo attraversato un quartiere popolare passando attraverso un campo da basket di strada dove alcuni ragazzi stavano tirando a canestro. A causa di uno strano rimbalzo il pallone finisce tra i piedi di Matteo che lo prende e lascia partire un tiro da tre punti che si insacca in rete. Dopo questo gesto atletico siamo stati obbligati a giocare, ci siamo divisi in due squadre diverse e abbiamo iniziato il match senza un’apparente posta in palio che, dopo essere stati sconfitti, abbiamo scoperto essere dieci dollari, poteva anche andare peggio.
Rientrati in hotel visibilmente sudati abbiamo fatto un bagno in piscina, una doccia calda e siamo usciti per cenare passeggiando lungo un corso d’acqua con la mente libera e con il solo pensiero delle 24 ore di viaggio che ci aspettavano il mattino seguente. Il sole tramontava lento disperdendo il suo giallo come un acquarello che tingeva di rhum la linea dell’orizzonte, il vento faceva danzare le spighe di grano al ritmo del suo soffio e il cielo blu era cosparso di nuvolette bianche, ricordavano le stelle della bandiera americana.
L’ultimo ricordo di viaggio è il cielo notturno del Colorado, una sigaretta e “Birds” di Neil Young che risuona nelle orecchie.
Diego Arbore