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“Brigar" o "Avrigà", come si dice in ligure, la cui nascita risale all’età del bronzo, è un antico borgo dimora dei conti di Ventimiglia e, successivamente, dei Doria di Dolceacqua
Il ponente ligure è una tranquilla passeggiata tra scorci di spiagge pianeggianti, interrotte da improvvisi scogli sassosi, mentre, lontano, un susseguirsi di ampi golfi, di porti fitti di natanti, di cittadine adagiate, come comode signore, davanti a una distesa color cobalto che, quando il cielo è terso, lascia intravedere, in fondo all’orizzonte, le prime propaggini della Corsica.
Ma la riviera di ponente non è, certamente, solo questo: lo dice la storia dei mille paesini della costa e dell’entroterra che aspettano solo di farsi ammirare nella loro unicità e bellezza. Così, complice una giornata di caldo sole, ho raggiunto Bordighera e da qui mi sono “arrampicata”, lungo la tortuosa statale della valle Nervia, fino ad Isolabona, senza dimenticare, per gli amanti del buon vino, di consigliare una tappa d’obbligo a Dolceacqua, borgo famoso per la sua bellezza quanto per il Rossese.
Da qui ho continuato per la rotabile, lungo la valle del torrente Merdanzo, fino ad una curva dove, all’improvviso, arroccato su uno sperone di roccia, ecco apparire Apricale. Non stupisce il nome, il cui toponimo “aprico” (soleggiato) la dice lunga sulla sua posizione, ubicata su quel costone ripido a un passo dal cielo. Non fatevi trarre in inganno, invece, dall’appellativo poco invitante del torrente che scorre in fondo alla valle, dovuto non ad esalazioni mefistofeliche ma al solo fatto di incunearsi in stretti anfratti, nascosti dalla fitta vegetazione. Non vi racconto la storia dell’antica Apricale, “Brigar” o “Avrigà” come si dice in ligure, la cui nascita sembra risalire all’età del bronzo, nemmeno quella dei suoi antichi signori, i conti di Ventimiglia o di quelli a cui fu ceduta, i Doria di Dolceacqua; vi voglio parlare dei suoi carruggi medievali in pietra a vista, delle ripide scalette, delle case che si intrecciano in rocamboleschi sbalzi, dei suoi arditi archi voltaici che vi accompagnano, su, fino alla piazza principale.
Percorrendo la salita, dove occhieggiano i colorati “murales” dipinti negli anni sessanta-settanta dalla locale comunità di artisti e rappresentanti scene di vita contadina, si può raggiungere, in via degli Angeli, l’antico forno comunale, attivo fino agli anni quaranta, in cui esercitava il suo nobile mestiere “Giuà dei pai”, l’ultimo fornaio; potrete passare per la porta “de u Carugiu Ciàn”, la meglio conservata del borgo dove troverete inciso sullo stipite “1764 fame ubique” (fame ovunque), ricordo remoto della terribile carestia di quell’anno. Oppure incunearvi nel “Carugètu”, il più angusto dei vicoli di Apricale, che misura, in alcuni punti, meno di un metro.
In cima al colle, la piazza, la “Torracca“, unico slargo in un dedalo di viuzze, si apre su due piani, circondata dalla Chiesa Parrocchiale della Purificazione di Maria Vergine, dall’Oratorio di San Bartolomeo, dal Palazzo del Comune e dal Castello della Lucertola (già menzionato in documenti del 1902) in cui è ubicato un curioso museo che, accanto a scenografie di Luzzati, mostra cimeli del Risorgimento o Statuti Comunali risalenti al 1287.
Archi e logge giocano con prospetti barocchi, sotto lo sguardo compassato della fontana prerinascimentale (l’antico abbeveratoio) e del campanile cinquecentesco che fanno da scenario a tornei di pallone elastico, anche detto palla pugno, a manifestazioni teatrali come quelle, ormai consuete, organizzate dal Teatro della Tosse di Genova, a mostre di pittura e ceramica o alla tipica Sagra delle Pansarole (prima domenica di settembre). Dal giardino pensile del castello, il panorama si distende fino in fondo alla valle per poi risalire fino alle ultime case percorrendo un viaggio ideale che, passando dalla Chiesa di Santa Maria in Albis (ora Madonna degli Angeli) del XIII secolo, si sposta poco sopra al cospetto di una sorgente, un tempo, ritenuta miracolosa per le malattie degli occhi, e prosegue per i ruderi dell’antica Chiesa romanica di San Pietro in Ento (XI secolo) e si conclude a Pian del Re, dove si trova una necropoli a tumuli sepolcrali dell’età del bronzo, il cui tumulo più importante, originariamente composto da 10.000 pietre (ancora è visibile l’esteso perimetro di 16 m. di diametro), era destinato ad un principe guerriero.
Spulciamo, ora, tra le curiosità. Cominciamo con un fatto di “noir”: Cristina Bellomo nasce nel 1861, in una povera famiglia di contadini apricalesi. Sposata a Giobatta Pisano detto ”Battiloso” si traferisce a Nizza, dove rimane presto sola perché il marito, ricercato dalla polizia per la sua attività di falsario, fugge negli Usa. Occupata come tuttofare presso il nobile Della Torre, ne diviene l’amante ed unica erede. Morto il protettore, passa la vita, tra Parigi e Pietroburgo, tramando intrighi fino ad essere mandata a Tokyo, come spia al soldo dei sovietici. Scoperta dalla polizia giapponese, viene salvata grazie ad un abile lavoro di diplomazia e ritorna in Russia, dove conquista l’amore dell’arciduca Sergio, fratello dello Zar. Per avere il consenso alle nozze, viene rintracciato il primo marito e fissato un incontro a porte chiuse. Dietro quei battenti si compie il dramma: la bella Cristina è uccisa, a bastonate, dal coniuge che, fuggito, viene trovato impiccato alla cancellata del cimitero.
Apricalese è, anche, Giovanni Martini detto John Martin che le cronache vogliono al servizio del 7° cavalleggieri del Generale Caster, in qualità di trombettiere, e che si salvò, miracolosamente, dalla battaglia di Little Big Horn, solo, perché mandato a chiedere rinforzi. Non cercate, invece, il Barone Rampante (opera di Italo Calvino) ma solo il suo ontano, ubicato a circa un chilometro e mezzo dal bivio Bajardo-Perinaldo, quello che il giovane Cosimo Piovasco di Rondò, dovendo espletare i suoi bisogni, trovo sulla riva del Merdanzo, con “ una forcella sulla quale si poteva stare comodamente seduti”.
Per finire in “dolcezza” non si può tralasciare di gustare le pansarole, dolci a base di pasta, zucchero ed anice, preparati in occasione della festa patronale che vengono mangiate intingendole nello zabaglione. Da dove deriva il loro nome? Qualcuno ipotizza che derivi da “panza” nel senso che sono rigonfie come l’epa di un obeso ma preferisco pensare che si riferisca a una pancia normale, quella del visitatore, che si delizia all’ombra di tanta storia.
Adriana Morando