Un arcipelago di piccole isole al largo dell'Irlanda, un ambiente bucolico dove la mano dell'uomo non ha calcato il paesaggio, immersi nei colori e coperti da un cielo di zucchero filato... Proprio quel "Cielo d'Irlanda" che ha cantato Massimo Bubola
Il profumo della colazione mi raggiunge fino in camera risvegliando i miei sensi dal torpore della notte appena passata. Alzandomi alla ricerca di una fonte di luce sono arrivato alla finestra brancolando nel buio, ho aperto le cigolanti persiane di legno mentre il mio sguardo saliva immediatamente al cielo dove piccole nuvole bianche facevano a gara sulla pista celeste, sembravano zucchero filato appena formato.
Attraverso la finestra con le tendine viola vedevo il cielo spezzato dal verde smeraldo della collina proprio all’altezza dei miei occhi, dove un pascolo di mucche faceva colazione con l’erba bagnata dalla pioggia notturna che, mista ai primi raggi solari, colorava il paesaggio come un acquarello ancora fresco.
Sono rimasto qualche secondo affacciato a osservare una fila di case colorate e il pub dove avevo ballato la notte precedente, quella era Doolin, un piccolo centro della costa ovest dell’Irlanda affacciato sull’oceano Atlantico, priva di grandi attrazioni ma dove si racconta ci sia la migliore musica folk del paese.
Con il mio amico Matteo siamo arrivati la sera precedente quando le luci erano già dietro le colline e la temperatura iniziava a pungere, il serbatoio della macchina ormai agli sgoccioli e le possibilità di restare a piedi nella brughiera irlandese aumentavano a ogni metro. La fortuna, apparsa sotto forma di piccolo centro abitato, ci ha dato un aiuto in extremis, una decina di case intorno al solito pub e una pompa di benzina sembravano un miraggio in lontananza… Il distributore, piazzato davanti al portone di una casa, non aveva il casottino per pagare né un totem dove inserire le banconote e rifornirsi con il self, mancava anche il titolare e la pompa era semplicemente abbandonata a se stessa.
Un cartello consigliava di suonare la campana per ricevere assistenza, mi sono guardato in giro e ho trovato una corda che penzolava sopra la testa, una volta tirata non mi restava che aspettare…
Dopo rumori strani e cigolii sinistri dalla porta esce un anziano signore dal viso simpatico, le sue rughe profonde denotavano un’inclinazione al sorriso e alla cordialità tipica del carattere irlandese, ci ha raccontato delle sue doti di grande ballerino e del paese dove vive, dei suoi figli in giro per il mondo, e una volta indicata la strada ci siamo salutati e stretti la mano come vecchi amici.
La luce del sole era già un ricordo e il cielo ormai blu sfumava all’orizzonte con strisce rosse e arancioni, la strada era stretta e il senso di marcia era lo stesso in entrambe le direzioni, lungo i lati gruppi di pecore ci seguivano e si muovevano come i tifosi dei ciclisti nelle salite più impervie.
Rainy Day Woman di Bob Dylan era la traccia del cd nell’ultimo tratto prima di arrivare a Doolin, la nostra destinazione, un paesino affacciato sulla costa ovest, scalo da cui imbarcarsi per raggiungere le Isole Aran.
Abbiamo trovato uno splendido B&B sopra il pub principale del paese nel quale abbiamo cenato, bevuto Guinness e ballato musica folk. Quattro ragazzi in abiti caratteristici hanno suonato le loro chitarre e violini in mezzo ai grossi tavoli in legno, un caminetto acceso e i vetri appannati hanno reso l’ambiente magico e ospitale in questo inaspettato allegro paese della contea del Clare. Alternavano pezzi caratteristici della musica Irlandese a brani Rock di artisti internazionali ma nativi irlandesi come gli U2 e Van Morrison del quale hanno suonato una bellissima cover di Brown eyed Girl.
A fine sera abbiamo passeggiato verso il nostro B&B osservando la Via Lattea che illuminava la strada e l’orsa maggiore dominare il firmamento riportando alla mente le parole di Massimo Bubola sul cielo d’Irlanda, ti ubriaca di stelle di notte e il mattino è leggero.
Dopo la colazione a base di salsiccia, uova al tegamino e bacon, abbiamo preso la strada del porto, il battello “Fortunity” ci aspettava per solcare l’oceano. L’imbarcazione era piccola e aperta, portava una ventina di persone al massimo e quel giorno il mare non era tranquillo, ogni onda faceva sobbalzare la prua scatenando nausee e tempeste intestinali, una signora ne ha fatto le spese inseguendo la propria dentiera lungo lo scafo.
Finalmente si vedeva l’isola, era Inis Mòr o Arainn Mhor, la più grande delle tre e la più esposta a occidente, dove si vive di turismo e della vendita dei famosi e costosissimi maglioni di lana, abitata da poco più di mille abitanti che vivono in casette indipendenti con giardini delineati da lunghi muretti di pietre incastrate a secco.
Il silenzio era turbato solo dal fragore del mare e da poche voci dei turisti che si disperdevano nell’aria, il sole saturava i colori rendendo il verde dei prati intenso e avvolgente nella sua uniformità, l’assenza di mezzi a motore rendeva surreale un ambiente nel quale la tranquillità era di casa. Per ammirare la sua bellezza siamo saliti su un carretto guidato da un vecchio signore e il suo mulo Charlie alimentato a frustate nel sedere.
Durante la gita, l’uomo originario di Galway ci ha raccontato la sua vita tralasciando informazioni sull’isola in un incomprensibile inglese dal fortissimo accento irlandese, mi sono affidato perciò alla guida scoprendo che il forte che vedevo in cima alla collina si chiamava Dun Aengus, era stato costruito durante l’età del bronzo e situato a un’altezza di cento metri sul livello del mare a picco su una spettacolare scogliera di calcare.
Scesi davanti al grosso muro che cingeva la roccaforte ormai consumata dagli anni e dal clima abbiamo ammirato il paesaggio dal quale si dominava su un panorama a 360 gradi, da una parte l’arcipelago e l’Irlanda, dall’altra l’Oceano Atlantico.
L’erba danzava sulle sinfonie del vento e il sole lanciava schegge di luce che si diramavano in ogni direzione, un gabbiano si faceva trasportare gestendo le correnti con lievi movimenti alari. Il forte è stato sede di compagnie militari ma anche di celebrazioni religiose, una spianata con grosse pietre che riportano alla mente i menhir di Stonehenge era il loro sito, l’aria era mistica e ancestrale e il modo migliore per fondersi con il momento era ascoltare buona musica, la scelta è caduta su Bouree dei Jethro Tull forse il più bel brano di quelli che J.S.Bach ha ispirato al gruppo scozzese capitanato da Ian Anderson.
Il mulo Charlie iniziava a spazientirsi e abbiamo dovuto risalire e percorrere la strada verso il porticciolo in attesa dell’imbarcazione per la prossima isola, nel tragitto, sfogliando la guida ho trovato una foto che li raffigurava, dopo averla vista ha accennato un sorriso ma non restò troppo sorpreso, forse non vedeva l’ora di raccontare la propria vita ad altri turisti e ci ha congedato con una forte stretta di mano.
Siamo salpati verso mezzogiorno con rotta verso Inis Meain, la giornata si manteneva inaspettatamente tiepida e poche nubi sembravano sul punto di minacciarla, una piccola orca saltò improvvisamente fuori dall’acqua e vi rientrò con un colpo di coda maestoso per poi sparire nelle profondità marine.
Questi sono gli istanti in cui le domande diventano superflue ed è obbligo immergersi nell’ambiente circostante, nel mio caso canticchiando una bella canzone, oceano del nostro Fabrizio De Andrè, forse non tra le più conosciute ma per me una delle più importanti e belle della sua produzione.
Arrivati a Inis Meain abbiamo mangiato un hot dog passeggiando sulle strade sterrate che conducono ai bellissimi cottage e alle rovine di un antico forte medioevale. L’isola, con una popolazione di 200 persone è la meno abitata dell’arcipelago ma non la più piccola, il paesaggio e il clima restano invariati ma essendo meno turistica permette di preservare meglio la lingua Gaelica, l’idioma originale irlandese, distribuita in zone chiamate Gaeltacht e parlata da circa centomila persone che portano avanti la loro crociata a favore della conservazione delle tradizioni locali.
Come si vive in questi luoghi? Per sopperire a questa curiosità abbiamo parlato con un abitante, un signore che vive con la moglie e un piccolo orto fuori dal suo cottage. Ci ha raccontato che le tre isole sono in simbiosi tra loro ed è facile rifornirsi dai piccoli negozi di generi alimentari presenti e con un sorriso dice di pregare tutti i giorni il signore per la loro salute.
Dopo il saluto ci ha richiamato e corso in contro dicendo che si era dimenticato che non esiste posto al mondo che lo rende più felice e non esiste città paragonabile ai miliardi di stelle che ogni sera si accendono sopra la sua testa.
In porto abbiamo aspettato l’ultimo traghetto che a ogni isola visitata diventava sempre più piccolo, questo si chiamava “Lucky” ed era capitanata da un corpulento uomo dalla barba bianca che sembrava barcollare per qualche bicchiere di troppo piuttosto che per l’ondeggiare del mare.
Inis Oirr è la più piccola ma non la meno popolosa, è la più vicina all’Irlanda, ed è collegata da numerose rotte giornaliere che la rendono fondamentale per l’arcipelago. Per visitarla abbiamo noleggiato due biciclette e siamo arrivati nel piccolo villaggio composto da caratteristici cottage con il tetto in paglia e un bellissimo pub con vista sul mare dove abbiamo bevuto un ottima Guinnes e riposato i muscoli. I negozi di articoli locali vendono prevalentemente maglieria di lana tipica famosa per il colore e per il calore che raccoglie al suo interno, rigorosamente preparati a mano il loro prezzo oscilla tra i cento e i trecento euro.
Non potendo spendere tutti quei soldi ho deciso di ripiegare su un’armonica a bocca che conservo ancora gelosamente e che ogni volta che suona mi riporta magicamente in quei luoghi. E’ stata sufficiente un’ora per girare l’isola, conoscere una vecchietta e il suo gatto, bagnare i piedi in mare e raccogliere un fiore come ogni viaggio e riporlo nella guida, un ricordo, un profumo e un colore delle Isole Aran.
Diego Arbore