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Case costruite su isolotti di trecento metri quadri, muri a secco che separano giardini e viuzze sterrate dove le macchine non servono, solo biciclette, asini e buone gambe
Il traghetto per le Shetland partiva a mezzanotte, mancavano ancora cinque ore, dovevo passare il tempo e con me avevo solo una copia di Moby Dick rubata due giorni prima in una impolverata biblioteca di Inverness, un pacchetto di sigarette, il taccuino di viaggio e nulla che potesse calmare la mia fame. La locanda dei marinai nel porto di Kirkwall brillava nel buio come la stella cometa avvolta nel paesaggio delle Orcadi e, dalle nubi cariche d’acqua che lentamente avanzavano, a breve sarebbe scesa una pioggia incessante.
Sembrava il pub interstellare di Star Wars, ho fatto un sorriso ebete indicando un tavolo libero e mi sono seduto con leggero imbarazzo ordinando una pinta di Guinnes, uova e patatine fritte con bacon. La tv era in bilico su una mensola di fianco ad una volpe imbalsamata, sembrava dovesse cadere da un momento all’altro. Quella sera andava in onda il derby di Liverpool in diretta dal Goodison Park, non molti mostravano particolare interesse per l’incontro ma quei pochi sembravano pronti a scagliare bottiglie sui muri in caso di sconfitta. Davanti al caminetto acceso un uomo dalle basette folte fumava la pipa, indossava una blusa della marina che gli donava un aspetto austero e malinconico, di sicuro aveva navigato per tutta la vita ed ora faceva i conti con la nostalgia. Guardava in alto, sembrava osservare la nuvoletta dei ricordi mentre lo scoppiettio del legno si fondeva con lo sciabordio del mare ormai perennemente presente nelle sue orecchie grandi come conchiglie. La cameriera, una donna sui quarant’anni mal portati, mi ha servito la cena usando poca delicatezza ma sorridendo in maniera accomodante, una gentile concessione per un forestiero.
Improvvisamente un lampo squarciò il cielo che tuonò in maniera così forte da far tremare i bicchieri, solo la volpe imbalsamata rimase impassibile. La luce era andata via e potevo solo sentire il profumo del bacon salire dal piatto, vedevo a fatica l’ammiraglio illuminato dal fuoco del camino mentre un ubriacone faceva il verso dei fantasmi e il barman finiva di riempire una pinta di birra con una torcia in mano.
Dopo aver indossato una cerata modello guardiano del faro, l’ammiraglio uscì nella bufera, nessuno sembrava preoccupato per lui ma quando la luce tornò fu accolta da un boato da stadio. Dopo aver spalancato la porta si tolse il cappuccio e con sguardo orgoglioso disse qualcosa interpretabile come “E luce fu…”, nel frattempo il Liverpool era passato in vantaggio e qualcuno bestemmiò per essersi perso il gol.
Finito di mangiare mi sono avvicinato al bancone per pagare, vicino avevo un tipo che non si era accorto di nulla, beveva e mi guardava con aria inespressiva. Non conoscendo le sue intenzioni ho cercato gentilmente di entrare nelle sue grazie chiedendo se la navigazione sarebbe stata sicura con questo tempo infame. Il vento ululava come un branco di lupi affamati e l’acqua schiaffeggiava i vetri quasi a volerli rompere, lo sconosciuto diresse l’occhio verso la finestra dicendo “questo ti sembra un tempo infame ragazzo?”
Altre domande sarebbero state superflue, ho pagato il conto e sono uscito nel buio indossando il K-way e mi sono riparato sotto la tettoia del pub. Le luci della nave immerse nel buio ricordavano un film di fantascienza, le ombre dell’equipaggio in controluce sembravano gli alieni di “Incontri ravvicinati del terzo tipo”, tuttavia mi sono armato di coraggio e ho cominciato a correre con lo zaino sotto braccio entrando con il biglietto ridotto a un pezzo di carta bagnato.
Quella sera ero uno dei pochi intrepidi passeggeri a cavalcare le onde del mare, a mezzanotte e cinque minuti siamo salpati verso le Isole Shetland, le acque erano increspate e il vento portava con se pioggia e salsedine.
Ho sempre amato sentire sulla pelle il sapore del mare ma avevo le scarpe zuppe e il freddo entrava nelle ossa, così sono rientrato sotto coperta, non avendo la cabina mi sono dovuto cambiare gli indumenti in bagno.
Non è stato difficile trovare posto per la notte, mi sono steso nella sala tv sotto un tavolino, il sacco a pelo umido scaldava a malapena ma ero così stanco che sono crollato sotto le note di “I shall be released” di Bob Dylan. Sognavo di essere Ismaele sulla baleniera Pequod, la voce del capitano Achab impartiva ordini sul cassero e io ero terrorizzato dal mare in tempesta, poi tutto si calmò e alle prime luci del mattino sono stato svegliato dal canto delle sirene (in realtà era Enya con “Carribean blue“, avevo ancora le cuffie nelle orecchie ma nel dormiveglia la sua voce sembrava quasi eterea).
Dopo aver preso i miei effetti sono uscito sul ponte, il cielo era limpido e l’acqua di colore argenteo, brillava come cosparsa di piccoli brillanti. Fiancheggiavamo dei grossi faraglioni popolati da gabbiani e pulcinelle di mare, una balenottera saltava sul pelo dell’acqua mentre un’imbarcazione tornava dalla notte di pesca carica di pesci e grossi crostacei.
Il paesaggio delle Shetland sembrava un dipinto a olio quella mattina, la brina risaltava il verde smeraldo dell’erba e il blu del cielo era macchiato di nuvole color perla.
Dopo una colazione nel pub del porto di Lerwick sono salito sul bus che mi avrebbe portato dall’altra parte dell’isola, mi sembrava la maniera migliore per visitarla.
Case costruite su isolotti di trecento metri quadri, muri a secco che separavano i giardini e viuzze sterrate dove le macchine non servivano, solo biciclette, asini e buone gambe.
Ero seduto di fronte ad un anziano signore, aveva lo sguardo felice, mi chiese “dove vai, ragazzo?”, ho risposto “non lo so”. Il bus era arrivato al capolinea, “vieni ragazzo, se non sai dove andare, ti faccio vedere dove vivo.”
L’ho seguito lungo una strada sterrata colorata dai fiori gialli, bianchi e puntigliosi, siamo arrivati di fronte a un piccolo cancello di legno. L’uomo mi ha invitato a bere una birra a casa sua, aveva i lineamenti di una buona persona, poteva anche essere un serial killer e la sua casa era immersa nel nulla dell’oceano, mi avrebbe potuto far sparire senza lasciare traccia, tuttavia mi sentivo tranquillo e sono entrato guardandomi attorno.
L’abitazione era disadorna ma accogliente, non aveva bisogno di molte cose se non della foto della moglie prematuramente scomparsa e dei tre figli ormai accasati tra Londra ed Edimburgo.
Mi ha raccontato la sua vita come non lo faceva da molto tempo, io ho ascoltato affascinato e con sincero interesse ma allo stesso tempo distratto da quel luogo così solitario. Attraverso la finestra della sala potevo osservare il mare, una foca sembrava spiare i nostri discorsi con la testa a pelo d’acqua, lui la osserva un attimo senza dargli troppa importanza, era la routine di tutti i giorni.
Si sa, quando sei spensierato il tempo vola, il sole freddo stava lasciando il posto alla sera pronta al suo turno quotidiano. Ci siamo salutati con un’energica stretta di mano e abbiamo scambiato gli indirizzi, una volta salito sul bus mi sono voltato, lui era sul pianerottolo di casa, con un cenno della mano mi ha fatto intendere che mi augurava buon viaggio per il mio rientro a Genova.
Un mese più tardi ho trovato una sua lettera nella posta, era francobollata dalla Isole Shetland, mi ringraziava per averlo ascoltato e confessava che era rimasto colpito da quel ragazzo che “non sapeva dove andare”. Ci siamo scritti ancora per i tre anni successivi fino a che non ho più ricevuto risposta, lui era partito per il viaggio più lungo.
Diego Arbore