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Il primo impatto con il cuore di Sultanahmet è stato il canto del Muezzin proveniente dalla Moschea Blu, la sua voce nascosta tra i rumori della città volteggiava in aria tra i gabbiani arrivando a chiamare i fedeli per la preghiera lasciando ammaliati chi come noi la ascoltavano per la prima volta
Una sera, durante una cena speciale, ho ricevuto un libro in regalo con sopra una dedica, un dono inaspettato, semplice e sincero, uno di quelli che arrivano dal cuore. Il libro parla di una città magica aldilà dei Balcani dove oriente e occidente si fondono nelle acque increspate dei suoi due mari sempre in movimento, come il popolo che ne abita le rive fin dai tempi antichi. Chiamatela Bisanzio, Istanbul o Costantinopoli, la sua storia è impregnata nella terra intrisa di sudore e sangue, l’eco delle millenarie battaglie viaggia nell’aria come polline in primavera trasportato dal vento che soffia sul Bosforo. Incuriositi e felici abbiamo riempito la valigia di entusiasmo e siamo saliti su un aereo, direzione Turchia.
A Instanbul era una fresca e limpida serata di marzo, la strada per raggiungere il centro dall’aeroporto Ataturk costeggia il porto e dal finestrino del taxi passavano rapidi i fotogrammi della vita quotidiana. Grandi palazzi trasandati e malconci sembravano cadere da un momento all’altro, facevano da scenografia ad un palco che alternava locali e ristoranti a piccole aree verdi dove gruppi di persone sedevano di fronte ad un fuoco. Il tassista, un tipo poco raccomandabile e di poche parole, zigzagava nel traffico a velocità sostenuta non curandosi di avere due passeggeri a bordo, teneva la radio ad alto volume e ascoltava un’incomprensibile canzone araba, dopo improvvise frenate e pedoni sfiorati siamo entrati a Sultanahmet, la città vecchia.
Ho pagato il taxi lasciando una piccola mancia e mi sono voltato per raccogliere le valigie, Arianna stava accarezzando un gatto, era grande e ben curato nonostante fosse un randagio, aveva un pelo folto e maculato di bianco e di nero. I gatti di Istanbul sono considerati sacri, i suoi abitanti li coccolano e li nutrono lasciandoli liberi di vagare per la città indisturbati passando silenziosi tra le gambe dei turisti riposando sulle panchine facendosi accarezzare dai passanti. Questo amore nasce da un antico racconto riguardante la gatta che Maometto teneva sempre in grembo, essa lo aiutò a cacciare un serpente che era entrato nelle sue vesti salvando la vita al profeta islamico.
Il primo impatto con il cuore di Sultanahmet è stato il canto del Muezzin proveniente dalla Moschea Blu, la sua voce nascosta tra i rumori della città volteggiava in aria tra i gabbiani arrivando a chiamare i fedeli per la preghiera lasciando ammaliati chi come noi la ascoltavano per la prima volta. Abbiamo attraversato il piccolo Aaran Bazar, tessuti e spezie coloravano il nostro cammino illuminato da variopinte lampade poste fuori dalle vetrine, alla fine del mercato si vedevano piccole nuvolette di fumo provenienti da un bar all’aperto. Attirati dal profumo di quei vapori ci siamo seduti e abbiamo ordinato un succo di carota e uno di melograno assaporando il fumo del tabacco alla mela che usciva dal narghilè, un cameriere passava di tanto in tanto a sostituire il carbone nel braciere e ci siamo rilassati osservando queste usanze così insolite dalle nostre parti.
Il locale era molto spartano ma affascinante, i tavoli in legno erano bassi e le poltroncine foderate di una stoffa rossa simile ai tappeti persiani, tre uomini suonavano dal vivo musica turca e sul palchetto si esibiva un Derviscio con la sua danza roteante, un rito che porterebbe a raggiungere un’estasi mistica. Gli altri tavoli erano occupati da uomini che giocavano a backgammon e dama, alcune donne con indosso un Niquab ridevano di gusto nascondendo il loro sorriso sotto il velo. Si beveva principalmente tè servito in piccoli bicchieri panciuti, poi caffè turco e succhi di frutta, gli alcolici non sono previsti dall’Islam e difficilmente vengono serviti nei locali. Nel cuore di Sultanahmet, venivamo avvolti dal profumo di castagne e pannocchie che rosolavano sulla brace degli ambulanti nella passeggiata notturna ai piedi della Basilica di Santa Sofia e della Moschea Blu.
La mattina seguente di buonora centinaia di gabbiani volavano sopra le guglie dei minareti, corvi e piccioni si spostavano frenetici da un terrazzo all’altro dove i gatti aspettavano sornioni una loro distrazione camminando silenziosamente sui tetti. Le navi in porto si scambiavano i saluti sotto un soffitto di nuvole bianche e i pescherecci ormeggiavano sulla banchina scaricando le casse del pescato della notte sui carretti già pronti per le prime consegne ai ristoranti. Il caffè turco ha una preparazione più lunga e accurata rispetto a quanto avviene dalle nostre parti, viene servito dentro una variopinta tazzina riempita fino al bordo, sul fondo giace un sedimento di finissima polvere che secondo gli anziani servirebbe a predire la sorte, noi quella polvere la raccoglievamo con il cucchiaino lasciando ben poco per leggere il nostro futuro.
Come prima tappa ho scelto l’imponente basilica di Santa Sofia, dapprima nata come chiesa cattolica, in un secondo tempo diventata moschea e successivamente museo. La sua travagliata storia parla di terremoti e guerre, del suo passaggio all’Islam e, in particolare, di leggende da mille e una notte, storie poco credibili ma sicuramente affascinanti. Sotto di essa nascono le cisterne, le più grandi della città, un vasto spazio sotterraneo costituito da dodici file da ventotto colonne tra le quali scorre acqua un tempo proveniente dalla foresta di Belgrado grazie ad un antica ed efficientissima rete idrica.
La bellezza immortale della Moschea Blu ha ispirato scrittori e registi, tra i quali Ian Fleming che fece recitare il suo James Bond nelle cisterne in dalla “Russia con amore”. Avevamo tolto le scarpe e Arianna doveva coprire il capo con un velo per entrare. Sul pavimento un grosso tappeto rosso occupava ogni spazio e alcuni fedeli si raccoglievano in preghiera.
I turchi sono abili mercanti, amano portare a termine lunghe ed estenuanti trattative e non sono disposti a vendere senza arrivare ad un punto d’incontro sul prezzo di partenza. Il Gran Bazar è il regno del commercio di Istanbul, al suo interno si possono acquistare tessuti e tappeti, dolciumi e merce contraffatta, ci sono anche diverse botteghe artigiane di pellami, gioielli e prodotti tipici. Collane e orecchini brillano come stelline nelle vetrine dei negozi, i profumi di curry e cannella si aggirano con circospezione tra i piccoli passaggi del bazar, mentre un ragazzino schizzava tra la folla portando un vassoio per il Tè legato a tre catene, la forza centrifuga permetteva ai bicchieri di non cadere, ma le sue doti da circo rimanevano innegabili.
Abbiamo chiesto il prezzo di una borsa ad uno dei più loschi individui che potevamo trovare, ci invitava a seguirlo per vedere altri modelli in magazzino e in pochi secondi siamo finiti fuori dal bazar, in un cortile ricavato da alcuni scantinati e piccole abitazioni ammassate senza alcun principio architettonico, un alberello era cresciuto proprio al centro e un uomo era appoggiato sul tronco, osservava un pollo che passeggiava inconsapevole del suo destino. Il compare del nostro venditore stava preparando la brace sotto una griglia, era scuro di fuliggine e indossava un camicia marrone sbottonata, sotto aveva una canottiera bianca e in testa un basco nero, una perfetta comparsa per un film di Kusturica. Intanto, il barbiere chiacchierava con un cliente fuori dalla sua bottega, vestiva un camice bianco da macellaio, ci guardava incuriosito ed io rispondevo con lo sguardo di chi non si sarebbe fatto accorciare neanche le basette. Abbiamo preferito non salire in magazzino aspettando in cortile, il mercante scendeva le scale tenendo la borsa sotto braccio con aria di sfida. Ognuno era fermo sulla sua posizione e la trattativa non si sbloccava, la situazione intorno a noi si faceva sempre più calda, il pollo ormai era allo spiedo e non volevamo fare la stessa fine…
Suggestioni. Nonostante la faccia da serial killer, i turchi sono persone affabili e dai modi gentili, così ci siamo accordati sul prezzo scendendo a meno della metà da quello di partenza. I soldi risparmiati sono stati investiti poco dopo al mercato delle spezie dove montagne colorate di polveri facevano da sfondo a vallate di dolciumi e campi di tisane di fiori.
Attraversati i bellissimi giardini dei palazzo Topkapi ci siamo trovati nella piazza sottostante al ponte Galata, il giro turistico era finito, adesso volevamo vivere le emozioni della vera Istanbul inoltrandoci nelle vie meno battute.
Una donna sedeva pensierosa sui gradini della piazza, indossava uno chador rosso papavero, i suoi occhi erano fermi, davanti a lei tutto si muoveva, eppure il suo sguardo sembrava non osservare nulla. I piccioni rissavano per accaparrarsi i semi venduti per poche lire da alcune signore anziane sedute dentro una baracchetta, sui loro visi notavo i segni di un carattere austero e di una vita noiosa, avevano lo sguardo schivo e non si lasciavano fotografare, la cultura islamica sostiene che ogni fotografia porti via una parte di anima, ho cercato di rubare molte anime in quei giorni e ognuna di essa riempie quella di chi la osserva.
La vita a Istanbul scorre frenetica, le persone si muovono come formiche calpestandosi tra di loro, quindici milioni di abitanti sono tanti e non si può vivere di stenti o aspettando la fortuna. Ogni persona ha un suo compito e chi non ha lavoro si inventa qualcosa, c’è chi vende pellicce dentro il cofano di un anacronistico Mercedes e chi ripara tv seduto sul marciapiede, alcuni raccolgono spazzatura da riciclare, altri riportano alla luce vecchi mestieri come il lustrascarpe e qualche nostalgico vende bandiere di Ataturk per le manifestazioni di piazza Taksim.
Per arrivare al quartiere di Beyoglu abbiamo attraversato il ponte Galata che collega il corno d’oro al quartiere Europeo, è stato impossibile trovare spazio per affacciarsi ad osservare il mare, ogni centimetro era occupato da pescatori della domenica intenti a tirare su pesci di piccola taglia e scarpe bucate, la destinazione del pescato non era certamente la tavola di uno dei numerosi ristoranti sottostanti. Beyoglu distribuisce vita lungo tutte le sue arterie ricche di locali e negozi, saltimbanco e musicisti di strada, Istiklal Caddesi è la sua aorta, tre chilometri di negozi, ristoranti, cinema e teatri, confluisce in piazza Taksim, il suo cuore che non cessa mai di battere. La torre Galata sovrasta il quartiere, era parte integrante dell’omonima fortezza costruita quando Genova vantava diritti commerciali con l’imperatore bizantino, oggi è uno dei simboli più significativi della città oltre che una delle attrazioni turistiche più importanti.
Quel pomeriggio, i tram rossi per piazza Taksim passavano di continuo in mezzo alla folla, dietro di loro una coda di ragazzini cercavano un passaggio gratuito o un semplice divertimento, si aggrappavano al finestrino scatenando le ire del tramviere e rendendo quasi ridicola la scena.
Il sole calava dietro le moschee specchiandosi sul bosforo, l’ombra dei minareti contrastava il giallo del cielo profilando perfettamente i contorni della città, le acque adesso erano calme e la gente era ferma a contemplare quella luce che sembrava giungere da un abat-jour posta dietro la collina.
Diego Arbore