Qualcuno dovrebbe ricordare a Renzi che la democrazia non è un metodo di selezione dei governanti, è un metodo di governo. La concezione renziana del dialogo politico è identica a quella dell'udienza medioevale e se ne ha riprova tutti i giorni in questo teatrino pro legge elettorale. La soluzione c'era già, ma il sistema proporzionale è stato ucciso dalla televisione commerciale
Questa settimana avrei voluto parlare del pessimo andamento dell’economia, con le previsioni del PIL 2014 sempre più in territorio negativo (come, d’altronde, ampiamente previsto). Oppure mi sarebbe piaciuto fare un bel parallelismo tra Monti e Renzi, entrambi spediti in Europa per raccattare qualche cosa di buono, entrambi osannati dalla stampa per le straordinarie doti negoziali e gli indubbi successi, ed entrambi rimpatriati, alla prova dei fatti, con le proverbiali pive nel sacco (anche questo ampiamente previsto). Da ultimo avrei voluto ritornare sull’evoluzione dei negoziati nell’Unione e su come questi dimostrino perché non c’è alternativa, restando dentro l’Europa, a questa strategia economica e a questo modello di leadership fallimentari, anche se cambiano gli interpreti o il semestre di presidenza (come vado dicendo – scusate se insisto – ormai da più di un anno).
Non toccherò, però, nessuno di questi temi. Il fatto è che, francamente, mi sono proprio stancato di sentir blaterare le Alessandre Moretti di legge elettorale, questi visi angelici da prime della classe della scuola renziana, istruite a ripetere a pappagallo le parole d’ordine della propaganda governative per imprimerle meglio nella testa di casalinghe distratte e impiegati sapientoni. E’ giunto il momento quindi di fare pulizia, una volta per tutte, di tutti gli slogan ipocriti e qualunquisti con cui Renzi tenta di propinarci un sistema elettorale pessimo.
Il primo slogan pubblicitario (il più famoso) parte dal termine “governabilità”, che sembra alludere alla mera “possibilità di governare”; quasi il contrario di “anarchia”, quasi che chi non si faccia il segno della croce al solo sentir nominare il sacro mantra voglia consegnare il paese al caos. Ma la realtà è che parlare di “governabilità” in merito ad una legge elettorale è come parlare di “guidabilità” nei confronti dei divieti del codice della strada: è l’equivalente della famosa “agibilità politica” per quelli che vogliono tenersi la poltrona anche se sono sotto processo. E’ il solito, abile trucco degli spin-doctor: anziché chiamare le cose col loro nome, si trova una formula rassicurante e difficile da negare, perché il suo contrario suona talmente negativo che diventa una passeggiata convincere chi non è preparato e inchiodare gli oppositori politici.
Nella pratica, quando evoca la “governabilità”, Renzi allude al fatto che la legge elettorale dovrà adempiere il requisito minimo di garantire un governo inequivocabile, immediato e stabile: il giorno dopo il voto si saprà esattamente chi governerà per cinque anni, senza rischio di ribaltoni. Apparentemente stiamo parlando di una cosa buona: cosa ci potrebbe mai essere di male nel permettere che si formi una guida politica stabile?
Il problema è che vogliamo che un governo sia stabile e duraturo, solo se è onesto, competente e capace: al contrario, se è autoritario, corrotto e incompetente, allora abbiamo tutto l’interesse che il governo sia instabile e anzi che cada al più presto. E in una repubblica parlamentare spetta al Parlamento decidere se il governo è degno o meno. E’ una risposta banale, mi rendo conto: ma d’altra parte, se vogliamo discutere seriamente di uno slogan banale, non possiamo che aspettarci una replica a tono.
Se un sistema assicura “governabilità” a prescindere, di fatto si mette le catene ai piedi, rendendo praticamente impossibile far cadere un esecutivo, anche se sta distruggendo il paese: un’eventualità, questa, niente affatto rara. La storia recente, da Berlusconi a Monti, è una storia di governi autoreferenziali in un parlamento cooptato, che hanno dapprima ignorato e poi aggravato i problemi dell’Italia, senza che nessuno si mettesse di mezzo.
Al contrario, nonostante sia la priorità per Renzi (quasi un’ossessione), l’Italia non ha mai avuto problemi di “governabilità”: magari c’è voluto qualche mese, ma alla fine si è sempre riusciti a dare una guida politica. Niente a che vedere con il caso del Belgio: paese attualmente senza esecutivo, che in passato ha impiegato anche più di 500 giorni (!!) per formare un governo e che pure – ci ricorda Paul Krugman – ha performance nettamente migliori rispetto ai vicini europei da un punto di vista economico (oltre che calcistico).
Il premier la settimana scorsa ha dichiarato: «Siamo banali, pensiamo che ci debba essere un vincitore. […] Bersani, in bersanese, lo ha spiegato bene: sono arrivato primo ma non ho vinto. Io voglio un meccanismo in cui chi arriva primo vince».
Siamo così di fronte ad un altro capolavoro del linguaggio politico renziano, per cui la democrazia è uguale a una corsa campestre: se arrivi primo ti danno la coppetta e puoi fare il bullo al bar con gli amici. Qualcuno dovrebbe spiegare a Renzi che la democrazia non è un metodo di selezione dei governanti: è un metodo di governo. Un paese non è democratico solo se si da appuntamento ogni cinque anni per decidere chi governa: è democratico se è governato ogni giorno in modo democratico. Altrimenti, se il problema è solo selezionare il premier, si possono trovare metodi anche più intelligenti di una competizione mediatica a base di promesse irrealizzabili e trovate pubblicitarie: sarebbe molto utile, ad esempio, fare un test delle urine o un quiz di logica; oppure ancora – perché no – una prova di forza, tipo estrarre una spada dalla roccia.
Scherzi a parte, il punto è che se arrivo primo col 30% dei votanti e divento primo ministro, le decisioni che prenderò (ammesso che siano conformi a quanto detto in campagna elettorale, cosa che raramente succede) saranno le decisioni avvallate dal voto di una minoranza: e questa proprio non si può chiamare “democrazia”. In democrazia si fa quello che vuole la maggioranza, non quello che vuole chi buca meglio lo schermo televisivo.
Un’altra perla di saggezza recita che il premier è molto democratico perché “ascolta tutti”, anche se poi alla fine “spetta a lui decidere”. Non ci si rende conto che questa concezione del dialogo è identica a quella dell’udienza medioevale: anche i monarchi ascoltavano i loro sudditi, si sapevano mostrare magnanimi e dispensavano la giustizia. Ma, di nuovo, non basta ascoltare perché ci sia democrazia.
Per avere un confronto democratico, bisogna che le parti siano in una condizione di sostanziale parità: ma se uno può decidere e l’altro può solo parlare, non c’è alcuna parità. Per farmi ascoltare ho bisogno di avere qualche freccia al mio arco, qualche arma da usare nel caso io venga ignorato. Ma se non ho nessuna arma, allora non ho nessun peso politico: e se non ho nessun peso, sarà agevolissimo ignorarmi.
Il confronto democratico presuppone dunque poteri e contro-poteri, pesi e contrappesi: ed è altra cosa dalle suppliche, che invece funzionavano nei sistemi feudali.
Questa è vecchia, ma sempre attuale. Dura almeno dal 1995, quando la Lega Nord fece cadere Berlusconi; ed è poi diventata un cavallo di battaglia bipartisan a partire dal 1998, quando Rifondazione Comunista fece cadere Prodi; il quale sarà poi di nuovo impallinato, dieci anni dopo, dall’UDEUR di Mastella. Questi sono gli orrori politici che non fanno dormire sonni tranquilli ai nostri molto seri riformatori: il governo di un paese può cadere per mano di un partito che conta solo pochi punti percentuale; non è uno scandalo?
Niente affatto. Anzi, questa logica rivela un’opposizione ideologica ai piccoli partiti, che intende minare il presupposto stesso della loro esistenza. Infatti, il “partitino” è stretto tra due estremi: se toglie l’appoggio al governo, commette un reato di lesa maestà, viene additato da tutta la stampa e fa la fine di Rifondazione Comunista; se al contrario si mostra leale, lo appoggia e abbassa le sue pretese, si condanna all’irrilevanza politica e fa la fine di Scelta Civica. Se questo è il contesto, i piccoli partiti hanno vita breve.
C’è chi se ne rallegrerebbe, come tutti i fautori del duopolio destra-sinistra. Il problema è che poi la destra e la sinistra diventano quelli degli ultimi vent’anni: e se anche non vi piacciono, le altre opzioni hanno vita dura ad affermarsi. È esattamente il dilemma in cui si dibatte oggi il M5S, che da una parte deve dimostrare di essere alternativo, ma dall’altra deve anche essere costruttivo: eppure non può essere costruttivo stando all’opposizione, così come non può essere alternativo accordandosi con la maggioranza.
Una soluzione a questo paradosso, che eviterebbe anche il ricatto da parte di una minoranza, c’è già: la repubblica parlamentare con sistema elettorale proporzionale, che è quella da cui venivamo e quella che stanno smantellando pezzo dopo pezzo dagli anni ’90. Funziona così: i partiti prendono tanti seggi nelle camere quanti voti alle elezioni e il governo si costruisce con un accordo in Parlamento (che non è un inciucio alle spalle dei cittadini, ma semplice politica). In questo modo si ha la certezza che i rappresentanti del popolo si dividono secondo la reale composizione del paese; cosicché le leggi votate saranno sempre leggi gradite alla maggioranza degli italiani.
In questo sistema se un partito si impunta, non si fanno drammi: cade un governo e se ne fa un altro. Spetterà agli elettori premiare o meno la condotta di quel partito, stabilendo se il rifiuto dell’alleanza è coerenza o irresponsabilità. Le maggioranze potranno anche essere variabili, ma – è questo il punto – saranno sempre maggioranze vere: ogni decisione, cioè, avrà alle spalle un sostegno effettivo nel paese, il che assicura minore dissenso e dunque minore conflittualità.
Ma se questo sistema era così buono, per quale motivo andò in crisi? È una domanda difficile, a cui si dovrebbe rispondere in modo molto articolato. Eppure c’è un punto cruciale: a partire dagli anni ’80 si diffonde la televisione commerciale. E già all’epoca i più scaltri capirono una lezione, che poi fu padroneggiata con maestria da Berlusconi: se una cosa non appare in televisione non esiste. E se in TV ti dicono e ti ridicono una bugia (spiegava Goebbels), prima o poi finirai per crederci.
Per ottenere un assetto vantaggioso, e in particolare proprio per avere un esecutivo forte (la famosa “governabilità”), le classi dominanti non avevano più bisogno di ricorrere a metodi cruenti: bastava influenzare l’informazione e contrastare la verità politica con una verità mediatica. Ed è proprio questo, in definitiva, il lascito raccolto oggi dal vero erede politico di Berlusconi.
Andrea Giannini