Quando un'azienda licenzia un dipendente, si rivolge alla società di outplacement che prende in carico il lavoratore in uscita per costruire una nuova figura professionale: un business destinato a crescere
Anche in Italia si sta diffondendo l’outplacement, la strategia della ricollocazione professionale, una pratica nata negli Stati Uniti nel dopoguerra e diffusasi anche in Europa soprattutto negli anni 80. Nel nostro paese l’outplacement è sempre rimasto un mercato di nicchia, ma oggi, tra emergenza occupazionale e riforma del mercato del lavoro, inizia a diffondersi a macchia d’olio fra le aziende italiane.
Di che cosa si tratta? In parole povere, quando un’azienda licenzia un dipendente, si rivolge alla società di outplacement che prende in carico il lavoratore in uscita per costruire una nuova figura professionale capace di competere sul mercato del lavoro.
Al lavoratore viene quindi affiancato, a spese dell’azienda, un consulente che inizialmente lo guida nella stesura di un curriculum aggiornato, accompagnato da una brochure o da una lettera di presentazione. Poi attraverso alcuni colloqui e seminari tematici si giunge al tentativo vero e proprio di ricollocazione che consiste nello sviluppo di contatti con le aziende fino al concretizzarsi di un’opportunità di lavoro.
Oggi in Italia sono circa una decina gli operatori altamente specializzati nel settore e riconosciuti presso il ministero del Welfare, aziende che si dividono un business da 25 milioni di euro l’ anno, un giro di affari destinato a crescere sensibilmente viste le modifiche strutturali che stanno caratterizzando il mondo del lavoro italiano.
Nel 2010 sono state ricollocate 23.000 persone (di cui 2.500 manager), un numero ancora basso in rapporto al numero totale di licenziamenti (980.550), anche perchè la legge Biagi non obbliga l’ azienda che sospende un rapporto di lavoro a offrire il servizio di outplacement (il servizio è obbligatorio solo per alcune forme contrattuali).