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Un viaggio esclusivo all’interno dell’ospedale psichiatrico per raccontare la vita di chi tutti i giorni varca i cancelli sulla collina di Quarto, in attesa che Regione e Comune si mettano d’accordo per il lungo e complesso progetto di riqualificazione
A Vienna un giovane Sigmund Freud stava sperimentando l’uso dell’ipnosi nella psicoterapia quando in Italia si emanavano le prime leggi sui manicomi, intesi come luoghi entro i quali rinchiudere “i matti” perché fossero protetti tutti gli altri, quelli che erano fuori, i “normali”.
In ogni caso, il manicomio era un mezzo perfetto per togliere dalla circolazione nemici o parenti scomodi, contando sull’appoggio di chi gestiva le strutture, quasi sempre enti benefici privati. Quindi un uso più politico che sanitario, tanto è vero che i ricoverati erano considerati praticamente dei detenuti: quasi mai era prevista una cura e raramente la dimissione.
Ci volle quasi un secolo, e l’onda lunga del ’68, perché il manicomio fosse finalmente e definitivamente messo sotto accusa come strumento di alienazione dell’individuo. Nel 1978, anno in cui venne alla luce la legge 180, detta Legge Basaglia, si decretò la chiusura degli ospedali psichiatrici in quanto tali, ricercando sul territorio le sedi più appropriate per l’intervento terapeutico e riabilitativo del paziente.
Nello stesso anno, a Quarto arrivò come direttore dell’Ospedale proprio un allievo e collaboratore di Basaglia, il professor Antonio Slavich, che rappresentò una vera svolta per la gestione della struttura. Con impegno e grazie a collaboratori altrettanto volenterosi, lavorò a lungo e caparbiamente per far accettare la propria visione della psichiatria, diventando infine a Genova un punto di riferimento per i servizi di salute mentale del territorio.
Non vogliamo qui addentrarci nelle molte luci ed ombre di quella che fu una vera rivoluzione (l’unica reale rivoluzione del ’68, è stato detto) per l’approccio alla malattia psichiatrica in Italia, ma quello che ancora oggi troviamo all’interno di queste mura parte da qui. Gli esterni, invece, gli edifici e il parco, risalgono al 1892, anche se nel 1933 i padiglioni furono ampliati fino a decuplicare la superficie originaria.
Forse, proprio per la presenza dei numerosi ricoverati, che in parte ancora oggi vivono nella struttura, il complesso fu risparmiato dalla speculazione edilizia e tuttora rappresenta uno spazio inaspettato nell’affollata mappa cittadina di Genova.
Questo luogo, infatti, ha qualcosa di magico, nel suo essere respingente eppure riuscire in qualche modo ad attrarre sempre, a chiamare a sé. Qui ogni mattina arrivano i dipendenti della Asl 3 ad aprire gli uffici dei vari ambulatori, i cittadini che si fanno visitare o sbrigano pratiche burocratiche, i malati che si ritrovano nei centri riabilitativi.
Potrebbe sembrare semplicemente un polo sanitario e amministrativo, ma non è solo questo.
A Quarto, infatti, si può andare anche per cercare arte, quella che non è chiusa dentro una galleria. Antonio Slavich nel 1988 diede vita all’Istituto per le Materie e le Forme Inconsapevoli, per promuovere e divulgare, attraverso varie forme espressive come teatro, pittura, musica ed altro, l’incontro fra le diverse abilità e creatività espressive. Lo scopo era di ottenere maggiore conoscenza per migliorare l’integrazione sociale e la comprensione della diversità esistente fra gli individui.
Grazie sia alla fattiva collaborazione di Gianfranco Vendemiati che al contributo dell’artista Claudio Costa, si diede vita a un progetto di “arteterapia” decisamente innovativo per quegli anni. Numerosi furono gli artisti del panorama genovese, e non solo, che volentieri accettarono di incontrarsi per lavorare nel laboratorio con i pazienti e con Costa, che collaborò all’iniziativa fino al 1995, anno in cui improvvisamente morì.
Proprio alla sua memoria è dedicato il “Museattivo Claudio Costa” ricco di opere nate da questa collaborazione tra pazienti e artisti, fra cui Caminati, Degli Abbati, Fieschi e tantissimi altri. Particolare importante, nel Museo si è scelto di non mettere il nome dell’autore vicino agli oggetti esposti, volendo proprio ribadire che chiunque, creando un’opera, può comunicare qualcosa del proprio mondo interiore.
Un’isola nell’isola, insomma, della quale si potrebbe parlare a lungo e che da sola vale la visita. Poi, ci sono i libri della biblioteca, storici e quasi tutti a tema psichiatrico e psicopatologico. Oltre a tutto questo, c’è anche una cooperativa sociale che qui organizza laboratori e ospita persone in difficoltà. E c’è il Centro riabilitativo Basaglia, oltre a un’imponente raccolta di documentazioni storiche e sanitarie, ed altro ancora.
Il Comune ha accolto, questo occorre riconoscerlo, le pressioni di tanta parte della società genovese affinché il complesso non fosse svuotato, venduto e lottizzato, ma il meccanismo ad un certo punto sembrava essersi inceppato, proprio per i conflitti fra le varie amministrazioni.
Ricapitoliamo brevemente le tappe: nel 2013 è stato firmato un accordo di programma tra Regione Liguria (giunta Burlando), Comune di Genova (giunta Doria), Asl 3 Genovese e Arte (Azienda regionale territoriale per l’edilizia) per una ristrutturazione del complesso orientata alla riqualificazione urbana e al recupero degli spazi per inserire servizi, una Casa della Salute, verde urbano e, in parte, residenze.
L’anno successivo, siamo al 2014, si insedia il Collegio di Vigilanza presieduto dal sindaco Doria: il Comune si impegna a gestire le procedure urbanistico-edilizie in maniera più celere e snella, e a trovare collocazione adeguata per il trasferimento temporaneo del centro sociale, dei libri, quadri e archivio storico. In attesa dei Progetti Urbanistici Operativi di Arte e Asl.
A febbraio 2015, con una conferenza stampa, il sindaco Doria presenta i contenuti con cui “riempire” l’accordo stesso, scaturiti dal confronto pubblico anche attraverso la collaborazione del Municipio Levante. «Ribadiamo l’impegno a ricollocare nell’area funzioni che non solo garantiscano la memoria del luogo, ma ne promuovano usi nuovi, capaci di rompere le mura che lo separano dalla città» diceva il primo cittadino.
Fino a qui sembrava essere funzionato tutto, con il coinvolgimenti di molte parti sociali: semplici cittadini, comitati, associazioni che hanno presentato proposte, progetti, iniziative. Utilizzando spazi della struttura, si sono rilanciati incontri, cene e dibattiti. L’anno scorso sono andati avanti i laboratori di ceramica per costruire piastrelle, statuette da presepe, piatti decorati. Sull’esempio dell’Imfi (Istituto per le materie e forme inconsapevoli), si sono abilmente integrati pazienti psichiatrici, persone con disabilità diverse e cittadini della zona, spesso aiutati da artisti come Bocchieri, Sturla, Degli Abbati. “Chi siano i matti e chi siano gli artisti, ad un certo punto non conta più granché, tutti sono concentrati nel processo creativo che unisce e coinvolge. Gli oggetti migliori sono poi venduti per finanziare le nostre attività qui dentro”.
Parallelamente, l’Asl 3 porta avanti e definisce con il Comune l’ambizioso progetto della “Casa della salute”: non un semplice insieme di ambulatori medici ma un’organizzazione dei servizi, in grado di offrire risposte ai bisogni nell’ambito territoriale, facilmente raggiungibili dai cittadini per essere orientati nei percorsi di cura. Quindi, una parte dedicata alla sanità, una parte al quartiere e in generale alla città, infine una parte dedicata a opere di urbanizzazione non estrema ma ragionata e responsabile.
Il progetto, in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti Investimenti, proprietaria di una parte degli spazi, prevede che l’area maggiore (23.147 mq) sia suddivisa in 4 settori destinati per un quarto al mantenimento delle attività sanitarie, un altro a servizi pubblici e spazi verdi, e ben due a funzioni urbane. Negli spazi restanti, 4 padiglioni per oltre 3.000 mq, verrebbe ricollocato il Museattivo Claudio Costa, il Centro Basaglia e un “luogo della memoria” e polo culturale dove raccogliere la numerosa e storica documentazione presente in biblioteca.
Nel frattempo, in Regione cambiano gli interlocutori per il Comune, che forse avrebbe dovuto “portare a casa” qualcosa di concreto prima delle elezioni regionali. Così Palazzo Tursi rimarca che non si riesce a partire se Arte non presenta i PUO (ancora loro, i Progetti urbanistici operativi). Vengono istituiti ulteriori gruppi di lavoro, è stato presentato il portale www.scipuemmu.it creato attraverso il Municipio Levante per documentare il percorso che sarà portato avanti e si definiscono ulteriori contenuti ed eventi nell’attesa del passaggio di consegne.
Arriviamo a giugno 2016. Il Comune ha bussato ad Arte, reclamando il trasferimento in comodato degli spazi per iniziare i lavori previsti dall’accordo. Doria dichiara di aver scritto a Toti per sollecitare il rispetto dei patti e di non aver ricevuto alcuna risposta. Il clima fra i due enti è sempre più freddo, anche a causa dei rimpalli sul presunto credito di Arte nei confronti del Comune.
Intanto, il migliaio di volumi della preziosa biblioteca, dopo essere stati catalogati, grazie anche al lavoro di numerosi volontari, sotto la supervisione di Sovrintendenza, Regione e Ministero, sono stati trasferiti alla Biblioteca Lercari di Villa Imperiale. Forse, i padiglioni saranno sgombrati entro tempi relativamente brevi; Asl 3 organizza il trasferimento di alcuni uffici interni, ma poco altro si muove. A luglio i consiglieri regionali Lunardon, Rossetti, Ferrando (Pd) e Pastorino (Rete a Sinistra) hanno presentato due interrogazioni per sapere se la giunta Toti condividesse o meno il progetto portato avanti sino a qui e se non fosse il caso di accelerare le pratiche per trasferire il comodato d’uso al Comune.
Ma nella seduta di Consiglio regionale del 6 settembre scorso, l’assessore all’edilizia Marco Scajola ha rimbalzato la responsabilità alla giunta comunale per non aver deciso in merito al PUO che Arte, invece, aveva puntualmente presentato nel 2015 ma che, stando a Palazzo Tursi, non poteva essere ammesso. Anche l’assessore alla Sanità, Sonia Viale, ha detto che sicuramente gli impegni presi saranno mantenuti, ha ripetuto di credere fermamente nel progetto della “Casa della salute” ma che comunque il comodato d’uso che il Comune reclama non è indispensabile per iniziare i lavori.
Scambio di accuse piuttosto sconfortante, specialmente dopo tre anni di lavoro sul progetto. Ma una parola di speranza giunge da Amedeo Gagliardi, portavoce del Coordinamento per Quarto: «Abbiamo saputo, per ora in via ufficiosa, che in questi giorni il Collegio di Vigilanza si è riunito e sembra stiano preparando il comodato d’uso che occorre al Comune per iniziare le opere previste; aspettiamo ovviamente le conferme ufficiali ma siamo più ottimisti di un mese fa, un cauto ottimismo, come si dice in questi casi» sorride. Aggiunge anche: «I tempi sono lunghi, è vero, estremamente lunghi e dilatati, ma bisogna essere onesti: non sono cose che si possono decidere in poco tempo, solo la lettura degli atti prende chissà quanto tempo. Importante è che abbiano superato il momento di stasi e si siano accordati. Se siamo preoccupati da un eventuale cambio di giunta in Comune? Una cosa per volta, a suo tempo ci penseremo e affronteremo, eventualmente, anche questo problema».
Per ascoltare chi di questo progetto, e soprattutto di questo luogo, conosce ogni respiro, abbiamo cercato Gianfranco Vendemiati e Massimo Casiccia, rispettivamente presidente e vicepresidente dell’Imfi. Anche loro confermano un nuovo clima positivo attorno al progetto: «Si sono già stabiliti alcuni trasferimenti per iniziare i lavori, ci hanno assegnato ufficialmente gli spazi per il Museattivo e per l’Imfi, il laboratorio invece dovrebbe rimanere qui» dice Casiccia. Che aggiunge: «Il trasferimento dei volumi alla biblioteca Lercari in realtà non mi piace molto, avrei voluto che fossero catalogati e lasciati qui: ma appena avremo lo spazio inizieremo a chiederli indietro. Il progetto di un Museo che contenga tutta la documentazione storica, volumi, cartelle e reperti vari per fortuna interessa anche al nuovo direttore generale dell’ Asl 3, Luigi Carlo Bottaro, quindi è un progetto che vogliamo realizzare».
Mentre parliamo, Vendemiati e Casiccia mi mostrano le opere create anni fa da pazienti ed artisti utilizzando le cartelle cliniche in bianco degli anni ’50 e mi spiegano il funzionamento di un antico proiettore per conferenze di inizio secolo. Ma non pensano al passato, per quanto significativo sia stato: al centro di ogni loro discorso c’è un progetto, un’ idea nuova o il miglioramento di quanto già stanno facendo, che non è poco.
In vista c’è una collaborazione con l’istituto “Marco Polo” per portare i ragazzi ad avvicinarsi ad un’arte che dev’essere tutt’altro che remota; c’è il progetto di creare una sorta di laboratorio delle manualità per le persone che vogliano imparare a riusare, a creare, a riparare, dando anche delle possibilità di lavoro o quantomeno uno spazio dove provare idee per nuove professioni in ambiente protetto. «Noi vorremmo che le persone venissero qui senza pensare più che ci sono le mura, che ci sono i matti – spiega Casiccia – a parte che, una volta iniziata la ristrutturazione, qui muri non ce ne dovranno proprio più essere».
Vendemiati precisa: «Le persone vengono se fai delle cose concrete, qui con il Centro Basaglia passa parecchia gente, in futuro dovrà essere un centro riabilitativo nel senso più ampio del termine, sia psicologico che fisico. Ma idee ne abbiamo molte, e molti sono i progetti già sicuri: certamente si dovrà fare un auditorium, nel levante esistono solo quelli privati; noi vorremmo uno spazio dove poter alternare usi diversi, teatrali ma non solo. Ci sono tante associazioni che si appoggiano qui, e questa è una cosa bellissima, ci sono corsi aperti a tutta la città, noi vorremmo aggiungere eventi come cene culturali e artistiche, film e concerti, incontri con autori aperti a chiunque. Da un po’ di tempo stiamo collaborando con il Conservatorio e ci piacerebbe aprire dei laboratori per insegnare a riparare gli strumenti musicali, in città mancano queste cose, e anche un discorso sulla musica che da noi finora è stata un po’ tenuta ai margini».
«Sono entrato in queste mura nel 1975 per la prima volta – racconta Casiccia – allora era un vero e proprio manicomio, tutto chiuso con doppi e tripli giri di chiavi. Muri alti, ambiente ostile. Noi cercavamo già allora di fare attività con i pazienti, era tutto molto difficile, ma alla fine siamo arrivati alla svolta. Anche adesso l’atteggiamento è lo stesso, non stiamo certo con le mani in mano ad aspettare che le cose capitino. L’anno scorso abbiamo collaborato con un’associazione che si chiama “Lamaca gioconda” che ha girato qui un film, “Uargh!” che uscirà ai primi di novembre. Per dire che non abbiamo grossi problemi nell’accettare progetti, se sono interessanti, meritevoli».
«Noi cento ne facciamo e una ne pensiamo» concludono sorridendo allegri.
E si esce dall’ex manicomio pensando che sì, ci torneremo ancora, perché a volte, dalla città dei matti, il panorama è migliore.
Bruna Taravello