L'importanza dell'esperienza all'estero, le differenze culturali e il futuro dell'inglese come lingua franca globale. Una chiacchierata con il linguista britannico, uno dei massimi esperti a livello internazionale di intercultura
Non proprio una vita ordinaria. Questa è, in sintesi, la storia di Richard D. Lewis. Nato nel 1930 nel villaggio di Billinge, nel Lancashire, all’età di 30 anni aveva già fondato diverse scuole di lingue in Finlandia, Norvegia e Portogallo. Laureato alla Sorbonne in Culture e Civilizzazioni, parla correntemente oltre dieci lingue. Nel corso della sua carriera ha scritto i testi di numerosi interventi dell’Imperatore del Giappone Akihito, del Cancelliere tedesco Adenauer e del Primo Ministro finlandese Virolainen. Autore di diverse opere nel campo della comunicazione interculturale, ha svolto il ruolo di consulente interculturale dell’Imperatrice Michiko del Giappone, del Segretario Generale della NATO Rasmussen e della Banca Mondiale. Dal 1971, Lewis organizza corsi residenziali di lingua inglese per dirigenti d’azienda stranieri nella splendida sede di Riversdown House, nello Hampshire, in piena campagna inglese.
Milioni di persone in diversi paesi del mondo guardano gli stessi film, ascoltano la stessa musica e comprano gli smart phone. Internet e i social network sembrano aver accelerato il processo che conduce a una società apparentemente globalizzata. Avremo un’unica “cultura mondiale”? Le differenze culturali sono destinate a scomparire?
«Molte persone credono che il fatto che tutti indossino i blue jeans significhi che le culture stanno convergendo. Dal mio punto di vista, quest’analisi è piuttosto superficiale. Al contrario, le abitudini culturali non sono nella maniera più assoluta un frutto del caso. I valori culturali più radicati sono il prodotto di millenni di saggezza accumulata e trasmessa da centinaia di generazioni; di conseguenza, le culture si modificano con grande lentezza e resistono a molteplici forme di infiltrazione.
Citiamo l’esempio concreto dei rapporti d’affari. In un mondo ideale, se il venditore e l’acquirente sono due persone ragionevoli, possono giungere immediatamente a un accordo sulla quantità e sul prezzo. Sfortunatamente, una situazione del genere non si verifica praticamente mai. In realtà ci sono molti altri fattori che possono determinare il successo – o il fallimento – di una transazione a livello internazionale. Per esempio, gli americani non sopportano il silenzio, mentre gli asiatici dimostrano il loro rispetto per l’interlocutore evitando di rispondere immediatamente a una domanda. Gli scopi stessi, poi, possono variare notevolmente. Per la Francia, le aziende private sono un motivo di reputazione nazionale. Gli americani vogliono realizzare dei profitti, mentre gli uomini d’affari giapponesi mirano ad avere aziende con il più elevato numero di lavoratori possibile».
Il mercato del lavoro è più aperto che nel passato e grandi masse di lavoratori si trasferiscono all’estero in cerca di nuove opportunità lavorative. Alcuni, tuttavia, incontrano delle difficoltà nell’adattamento a una cultura diversa.
«Alcune persone si trasferiscono in un paese straniero senza conoscerne la cultura, ma una volta insediatesi in un contesto sconosciuto si trovano alle prese con una cultura diversa, rendendosi conto, in questo modo, che ambientarsi non è così semplice come credevano. Adattarsi a un nuovo modo di vivere può essere invece molto arduo. Questa difficoltà li porta a sperimentare sulla propria pelle il cosiddetto “culture shock”.
Prima di partire, sarebbe opportuno sviluppare una maggiore consapevolezza della cultura e della storia del paese nel quale ci si trasferisce. Bisognerebbe studiare i fatti storici che hanno portato una nazione e il suo popolo a diventare ciò che sono. Non si può andare a vivere in Francia ignorando gli eventi della Rivoluzione Francese o non sapendo chi era Louis XIV, così come non si può andare in Italia senza conoscere nulla di Mazzini».
Qual è l’importanza di fare un’esperienza di studio o di lavoro all’estero?
«E’ fondamentale. Se si conosce solo il proprio paese, si tende ad avere una visione ristretta, mentre se si viaggia e ci si sforza di aprire la mente ad altre culture, gli orizzonti culturali si espanderanno notevolmente. Un’altra cosa importante è quella di imparare il maggior numero possibile di lingue straniere».
Quante lingue conosce?
«Ne parlo più di dieci, tra le quali anche lingue non-indoeuropee, come il finlandese e il giapponese».
Qual è il metodo più veloce ed efficiente per imparare una lingua straniera?
«La cosa più importante è iniziare a studiare il sistema dei verbi. Una volta fatto questo, si può passare ad altre classi di parole e migliorare la propria conoscenza del lessico e delle espressioni idiomatiche. Al contrario, la fonologia è una questione di orecchio, ovvero un dono naturale. Tuttavia, anche se non si possiede questo talento, si può rimediare a patto di avere un buon insegnante».
Rimanendo in ambito linguistico, l’inglese si è affermato come lingua franca globale. Ritiene che questa posizione di dominio durerà per sempre? Oppure crede che sarà minacciata da altre lingue in futuro?
«Forse dallo spagnolo, ma è improbabile. Alcuni dicono che sarà sostituito dal cinese, ma in Cina ogni anno milioni di studenti incominciano a studiare l’inglese. Negli anni Settanta e Ottanta c’era chi sosteneva che il russo o il giapponese sarebbero diventate le lingue dominanti a livello mondiale. In realtà, queste previsioni non si sono mai avverate. Ovviamente, con ciò non voglio dire che la gente debba studiare soltanto l’inglese. Personalmente, ho dedicato molto tempo e molte energie allo studio di diverse lingue straniere, ma non ritengo che la posizione dell’inglese sia minacciata da qualche altra lingua. Sinceramente, come ho avuto anche modo di scrivere nei miei libri, nel futuro non riesco a vedere alcuna alternativa all’inglese».
Daniele Canepa