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Per il terzo appuntamento della Settimanale di Fotografia, di cui Era Superba è media partner, una giovane fotografa che con i suoi scatti e la sua ricerca stilistica si è già imposta all’attenzione internazionale del settore. I suoi autoritratti, le sue architetture corporee riempiranno Palazzo Ducale
Con un percorso partito dalla pittura, passato attraverso lo studio della architettura contemporanea e approdato all’arte performativa, Anna Di Prospero negli ultimi anni ha fatto molto parlare di sé e delle sue foto, esposte nelle principali città europee. Non poteva, quindi, mancare nel programma della “Settimanale di Fotografia”, edizione 2016, che mercoledì 11 maggio, per la terza volta riempirà la Sala del Munizioniere di Palazzo Ducale.
Dopo i ritratti di Guido Harari e il fotogiornalismo di Giovanni Troilo, sbarca a Genova l’eleganza della ricerca auto-ritrattistica della fotografa di Latina, classe 1987: scatti sofisticati, ricercati, che hanno creato uno stile unico e già famoso a livello internazionale.
Era Superba, media partner dell’evento, ha intervistato in anteprima l’ospite di questo terzo appuntamento della “Settimanale”, che si preannuncia da “tutto esaurito”, come i precedenti.
Anna, quando la fotografia da passione è diventata professione?
«Ho iniziato a considerare seriamente la fotografia a 20 anni, finito il liceo, quando, seppur iscritta all’università, passavo le mie giornate a fare foto, invece di andare a lezione. Poi ho scoperto i siti web di condivisione, come Flickr, e lì ho iniziato a postare i miei scatti. Da quel momento è stato un susseguirsi di eventi: un giornalista ha notato i miei lavori ed è uscito un articolo su Repubblica.it; in breve sono arrivata alla mia prima mostra personale a Roma e ho vinto una borsa di studio per l’Istituto Europeo di Design, e ho studiato e portato avanti il mio percorso. Tanti eventi, un po’ di fortuna: in precedenza avevo studiato pittura, ma quando ho capito che con le foto riuscivo a esprimere quello che con le parole non riuscivo a dire, ho capito che la fotografia era la mia strada».
Vista la tua età e il tuo percorso, ci si aspetta molto da te. Senti questa pressione? Come ti ci misuri?
«Non gli do molto peso perché oggi per dimostrare il valore che hai in quello che fai devi avere costanza, quindi è troppo presto. Tutti siamo in grado di realizzare belle fotografie ma la costanza, l’impegno e il riuscire a realizzare delle serie fotografiche coerenti sono elementi che formano un fotografo serio. Sono 10 anni che faccio fotografie; sono tanti anni ma sono anche pochi: ne riparleremo quando ne avrò cinquanta, forse».
Quali sono gli stimoli e le suggestioni che portano avanti il tuo lavoro, il tuo percorso?
«Ho suddiviso il mio lavoro in tre progetti principali: “I am here”, tutto dedicato al rapporto tra le persone e il luogo; “With you” focalizzato sul rapporto tra persona e persona, alle interazioni e i legami tra queste; “Beyond the visible”, il più recente, dove porto avanti un discorso più intimo. Sono molto cosciente a livello fotografico di quello che c’è stato nel passato e di quello che c’è ora, sto attenta a quello che succede, a dove sta andando contemporaneo, cercando di non lasciarmi influenzare. Le mie più grandi ispirazioni arrivano dal cinema e dalle arti performative».
Prendiamo un tuo lavoro: recentemente “Urban self portrait” è stato esposto a Parigi; come sei arrivata a questi “scatti”?
«L’idea è nata nel 2009, quando, dopo tre anni che ero in casa a fotografare, mi sono decisa a volere crescere come fotografa. Per cui sono uscita e ho realizzato una prima mini serie nella mia città, Latina; ho poi progettato di fare la stessa cosa in città a me sconosciute, proseguendo in qualche modo il discorso iniziato a casa, relazionandomi con le architetture a me contemporanee. Ho cercato e studiato le foto dei luoghi, soprattutto quelle dei turisti o amatori, per capire quello che c’era attorno, e per provare le posizioni. Dopo questa fase sono andata a fotografare, adattando il loco il mio progetto. È un lavoro che sto continuando a portare avanti».
Parliamo della “persona” ritratta: come nasce la composizione della foto?
«Non sto fotografando me stessa, ma una figura femminile; l’autoritratto è più un approccio performativo, e lo stare davanti alla macchina fa parte del procedimento artistico. È iniziato come un gioco, ma poi ho capito che solo io potevo realizzare quello che avevo in mente: ho provato anche con delle modelle, ma non sono mai riuscita a far passare quello che volevo».
Dove sta andando il mondo dell’immagine in cui siamo immersi, a fronte dell’evoluzione e diffusione tecnica, e tecnologica, in atto?
«Secondo me ci sono dei settori che sentono maggiormente questo passaggio, come il reportage: quello che vediamo sui media o nei concorsi sta mettendo in crisi le “regole” classiche di questo specifico ambito fotografico. Poi sicuramente c’è un problema di educazione all’immagine, cosa che non va di pari passo al “bombardamento” visivo che si è sviluppato negli ultimi anni. Ognuno di noi è abituato a “scrollare” centinaia di immagini al giorno, delle quali poi ci dimentichiamo; tutte immagini destinate a scomparire. Se ci pensi, noi siamo cresciuti guardando le foto stampate dei nostri nonni e dei nostri genitori ma i nostri figli probabilmente non vivranno la stessa situazione, essendo il digitale volatile, immateriale».
Quali saranno tuoi prossimi lavori?
«Nel 2014 sono stata in Cina, ma in quel momento non mi stavo dedicando al progetto, e quindi devo recuperare. Ho sempre lavorato in città europee e americane, ma vorrei andare ad oriente, dove ci sono architetture straordinarie».
Che cosa porterai a Genova?
«Porterò tutte le mie serie fotografiche realizzate fino ad oggi, cercando di illustrare in maniera approfondita cosa c’è dietro ai miei lavori fotografici, cercando di spiegare alcuni particolari che spesso non sono così immediati. Poi vorrei allargare il discorso alla ricerca artistica fotografica in Italia, che rispetto ad altri paesi, soprattutto Stati Uniti, è ancora un settore molto emergente. Spero di poterne parlare con tutti i presenti».
Nicola Giordanella