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Settimanale di Fotografia: Renata Ferri e l’importanza della cultura dell’immagine

Il quarto appuntamento con “La Settimanale di fotografia”, di cui Era Superba è media partner, vedrà come ospite la giornalista romana, photo editor di Io Donna e Amica. Un’occasione per parlare di un “mestiere” sempre più focale per la cultura fotografica


17 Maggio 2016Notizie > Settimanale Fotografia

Milano, Triennale, Renata FerriNata a Roma, milanese d’adozione, Renata Ferri è cresciuta assieme al giornalismo e all’editoria. Un percorso che da subito
è stato accompagnato dalla fotografia. Oggi è tra i più importanti e influenti photo editor del nostro paese: un ruolo spesso sconosciuto ai non addetti ai lavori ma che “decide” il linguaggio fotografico di ciò in cui siamo immersi quotidianamente. Il quarto appuntamento con la “Settimanale di Fotografia”, quindi, sarà l’occasione per allargare il discorso a tutto ciò che viene prima e dopo lo scatto, alla fase di studio, di
scelta, di valutazione estetica. Era Superba, media partner della rassegna, anticipa in esclusiva i temi dell’incontro di mercoledì 18 maggio, parlandone direttamente con la protagonista.

La professione del photo editor, sebbene cruciale per i meccanismi dell’editoria e dell’informazione, è spesso poco conosciuta tra i non addetti ai lavori: come spiegherebbe questo ruolo e la sua importanza?
«Nel nostro Paese è una professione relativamente giovane. Solo nell’ultimo decennio i periodici italiani si sono preoccupati di avere il photo editor mentre i nostri quotidiani nazionali ancora non ne sentono l’esigenza. Siamo in ritardo rispetto agli altri paesi. Come giustamente afferma nella domanda, è un ruolo cruciale nella produzione dei giornali poiché dalle immagini passano oggi moltissimi contenuti che generano informazione. La capacità di produrre e selezionare storie o singole fotografie è frutto di studio ed esperienza e, oggi, di fronte al flusso continuo delle immagini che provengono dalla rete e dai social, ancora più necessario per evitare di cadere nelle trappole digitali e nella facile estetica».

Partiamo dalle origini della sua carriera: quali sono stati i passaggi che l’hanno portata a intraprendere la strada del giornalismo e della fotografia?
«Penso che il giornalismo sia nel mio dna. Conoscere il mondo, indagarlo, essere ovunque contemporaneamente e una passione politica, se mi consente l’utilizzo di un termine desueto o mal interpretato, hanno animato tutta la mia carriera. La fotografia è stata un incontro del tutto casuale, col tempo è sbocciata la passione e oggi posso tranquillamente dire che è una lunga e corrisposta storia d’amore».

La fotografia è uno dei pochi “mestieri” che possono essere imparati e affinati fino a livelli altissimi anche totalmente da autodidatti: secondo lei esiste una relazione tra questo e l’evoluzione della “società dell’immagine” in cui siamo immersi?
«Esiste poiché siamo “immersi” nelle informazioni visive, avvolti dalle immagini del mondo reale e di quello costruito. Possiamo essere autodidatti fenomenali. Senza dimenticare però che senza passione e senza studio non c’è mestiere che s’impari».

Qualità e quantità: durante i precedenti incontri della “Settimanale di fotografia” si è molto dibattuto sulla necessità di una “educazione all’immagine”; il suo punto di vista è sicuramente privilegiato, che cosa pensa della questione, se esiste?
«Non abbiamo una cultura d’immagine. Non si studia la storia dell’arte e tantomeno della fotografia. Pochissimi i corsi universitari peraltro nati solo recentemente. Abbiamo un gap di decenni. Non ci sono finanziamenti pubblici e non c’è la cultura delle donazioni per fotografia e conoscere attraverso essa. Il risultato è che chi lavora nell’ambito fotografico spesso s’improvvisa ma alle spalle non ha una preparazione solida. Sta cambiando ma dobbiamo iniziare a pensare ai bambini. Da lì si deve partire. Le immagini sono il loro patrimonio più importante e immediato. Devono conoscerle, utilizzarle per il loro sapere».

Lavorando in riviste di settore, in cui il lato estetico è spesso collegabile ai trend e alla diffusione di brand, secondo lei esiste una soglia, una questione “etica” sulla progettazione, realizzazione e successiva post-produzione delle foto?
«Penso che l’etica oggi riguardi più i fotografi che non le testate».

Fotogiornalismo. In una recente intervista parlava di fine del “colonialismo fotografico”: da che cosa dipende? È solo una questione di diffusione di strumenti tecnologici o esiste un cambiamento più profondo?
«Esiste una maggiore consapevolezza e una migliore istruzione per le persone che abitano il pianeta. Oggi sono in grado di guardarsi intorno e di raccontare le loro tragedie e le loro meraviglie».

Torniamo alla quantità. Secondo la sua esperienza, esiste il problema dell’assuefazione a determinati contenuti fotografici che mettono a rischio la qualità e la preziosità dell’informazione che veicolano?
«Se passo un’ora su Instagram o su Facebook o se cerco qualcosa in Google il rischio di assuefarmi e nausearmi è altissimo e dunque anche la voglia di uscirne».

La sua esperienza è vastissima e spazia praticamente a 360°; esiste però un progetto particolare che non è ancora riuscita a realizzare e vorrebbe assolutamente farlo?
«Penso di aver fatto pochissimo e francamente nulla di rilevante, se non grandi avventure umane. Oggi cerco di fare il più possibile perché temo di non avere abbastanza tempo per fare e vedere tutto ciò che vorrei. Le cose migliori però, sono certa, non le ho ancora fatte».

Per chiudere, che cosa “porterà” a Genova per l’appuntamento con la “Settimanale di Fotografia”? Di che cosa parleremo?
«Non ne ho la più pallida idea. Mi hanno detto che si sarebbe trattato di un’intervista e così mi sono immaginata quelle brutte cose “una contro tutti”. La notte ho faticato a prendere sonno. Porterò a Genova me stessa con le poche certezze e la voglia di condividere con il pubblico i dubbi e la confusione di questo nostro tempo e, nello scambio, magari impareremo tutti qualcosa».


Nicola Giordanella


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