Quinto e ultimo appuntamento per la seconda edizione della “Settimanale di Fotografia”: si chiude in bellezza, tornando a parlare di fotogiornalismo con Alessandro Penso, che da anni documenta le principali crisi umanitarie del Mediterraneo. Ecco l’intervista in esclusiva per "Era Superba"
Giunta al termine della seconda edizione, la Settimanale di Fotografia, di cui “Era Superba” è media partner, chiude col botto: ospite del quinto incontro, infatti, Alessandro Penso, fotogiornalista internazionale che da mesi sta documentando la tragedia di decine di migliaia di migranti che scappano da guerre e sfruttamenti, raggiungendo un’Europa che si è fatta trovare in qualche modo impreparata ad un evento di simile portata. “Era” aveva già incontrato Alessandro Penso, in occasione della presentazione della ricerca di Medici Senza Frontiere “Fuori Campo”, a cura di Giuseppe De Mola: un lavoro che ha documentato le decine di accampamenti informali, sparsi per la penisola, in cui i migranti si auto organizzano, in attesa di ricevere assistenza, documenti, o semplicemente per necessità di sopravvivenza.
Durante l’incontro, che, come di consueto, si terrà nella Sala del Munizioniere di Palazzo Ducale, si parlerà del difficile ruolo del fotografo in contesti delicati e ai margini, dove la professione spesso diventa missione e la foto ritorna a essere strumento potente di informazione globale. L’appuntamento di mercoledì 25 febbraio anticipa il workshop che Penso terrà il 28 e 29 maggio, sempre nell’ambito della “Settimanale”: una due giorni per parlare di fotogiornalismo e della fotografia documentaristica, entrando nel dettaglio del lavoro, dalla progettazione allo scatto, dall’editing alla preparazione delle didascalie e successiva presentazione dell’elaborato.
Alessandro, partiamo dalla tua formazione: dalla tua biografia scopriamo che hai studiato psicologia clinica prima di intraprendere la strada della fotografia. Questo ha in qualche modo avuto un peso nel tuo percorso?
«Tutto il vissuto che si ha, entra nel proprio lavoro, vale per tutti. Non posso certo dire che il mio rapporto con la fotografia sia come il rapporto tra paziente e psicoterapeuta: in questo caso, infatti, è la persona che ti cerca per poter trovare e risolvere dei problemi. Nella fotografia è il contrario, sei tu, fotografo, che vai dalle persone, per raccontare e documentare. Sicuramente posso dire che il mio percorso accademico mi ha dato degli strumenti di riflessione e delle strategie di approccio, fornendomi una metodologia».
Molti dei tuoi lavori sono scaturiti in ambito umanitario; nell’ultimo anno hai documentato diversi luoghi toccati dai flussi migratori provenienti da Medio Oriente e nord Africa. Da dove nasce questa tua spinto?
«In Italia viviamo la situazione attuale in prima persona, da sempre, e non solo come fotografi e giornalisti. Ho impresse nella mia memoria le immagini della nave “Vlora”, che portava i migranti dall’Albania e i racconti di mio nonno sulla guerra e sulla migrazione. Hanno generato in me la curiosità di capire e raccontare. Un percorso personale che è diventato un’esigenza professionale. Credo che ci sia sempre bisogno di raccontare e documentare certi fatti».
Che cosa vorresti che le tue foto riuscissero a suscitare in chi le guarda?
«Provo a dare un volto alle persone che sono in mezzo ai grandi eventi, ma vorrei anche che i miei scatti aiutassero a ricordare alle persone che, quando parliamo di migranti, il contesto è l’Europa, casa nostra; e questo, dal mio punto di vista, forse è ancora più importante che l’oggetto della foto in sé: in Europa, infatti, succedono cose molto simili a ciò che accade in paesi noti per guerre e disastri: abusi, sfruttamenti, affari sulla pelle delle persone, violenze…»
Fotografando persone in contesti così particolari e drammatici, hai mai avuto il dubbio sull’opportunità di fare una determinata foto? Ci sono stati dei momenti in cui hai preferito non scattare?
«Questo succede tante volte. In certe situazioni le foto che ti ricordi sono quelle che non hai scattato. Non esiste una regola, ovviamente, dipende tutto dalla persona. Dal mio punto di vista esiste un senso civico: mi è capitato molte volte di mollare la macchina fotografica per aiutare, intervenire, prendere le difese, protestare; la cosa mi ha creato anche problemi e ripercussioni sul lavoro. Dall’altro lato, però, esistono momenti in cui bisogna assolutamente scattare, per raccontare una storia che altre persone non potrebbero altrimenti conoscere; in quel momento, il tuo massimo aiuto è proprio quello».
Durante la “Settimanale” si è discusso molto sullo stato di salute del fotogiornalismo. Qual è la tua lettura di questa particolare congiuntura?
«Il fotogiornalismo subisce il momento di transizione della stampa. I giornali stanno cercando di capire come gestire la questione “internet”: alcune testate stanno riuscendo a fare questo passaggio mantenendo e investendo le risorse necessarie per portare avanti il fotogiornalismo di qualità. In Italia siamo indietro, soprattutto per quanto riguarda la copertura delle notizie di “estera”; molti ottimi giornalisti italiani lavorano per testate straniere ma hanno difficoltà in Italia. Sicuramente il fotografo deve sapersi adeguare ai nuovi linguaggi. Oggi girano meno soldi, senza dubbio, ma è anche meno costoso fare questo lavoro».
Un altro tema ricorrente nei dibattiti è il problema quantitativo: oggi come non mai abbiamo accesso a centinaia di foto e immagini ogni giorno…
«Tantissime persone hanno capito che possono essere il medium di loro stessi e, quindi, esistono flussi incredibili di immagini. La “questione migranti”, con la crisi scoppiata nel 2015, è stata sicuramente una “Eldorado” per molti fotografi o aspiranti tali: eventi di portata mondiale, praticamente in casa, senza nessun tipo di restrizione, facilmente raggiungibili. È anche comprensibile che succeda questo, io lo capisco. Ma bisogna rendersi conto che possono esserci dei problemi: dalla foto “rubata” senza porsi nemmeno il problema dell’opinione di chi veniva ritratto, al nervosismo di massa che si è creato nelle zone interessate, letteralmente invase da orde di fotografi. Questo riguarda anche molti professionisti: questa parola non deve ingannare, la fotografia è un po’ un “far west”».
Era Superba sta seguendo la “questione migranti” legata a Ventimiglia. In base alla tua esperienza sul campo, qual è la situazione italiana rispetto ad altri paesi e come si evolverà nei prossimi mesi?
«L’Italia ha una struttura ricettiva importante, cosa che non c’è in altri paesi. Il problema è che spesso non funziona, mescolata ad affari e malaffari. Purtroppo, poi, i cittadini spesso non sono informati su quello che realmente succede, venendo manipolati per convenienza politica. Quindi, alla fine, ci ritroviamo con una criticità ancora più grande. Con la chiusura della rotta balcanica, potrebbero esserci dei seri problemi: il sistema italiano potrebbe non reggere un ulteriore incremento del flusso migratorio. Però, è nella natura umana: finché ci saranno guerre, le persone scapperanno; questo è il problema».
Quali sono i momenti critici e quali quelli esaltanti del tuo lavoro?
«A ottobre 2015 ho attraversato una crisi mentre lavoravo in Grecia: vedevo tutti ad affannarsi a fotografare, in una situazione che mi sembrava ridicola; mi dicevo, infatti, “se siamo tutti qua, e siamo così tanti, lasciamo perdere le foto e facciamo qualcosa”. Questo mi ha spinto a farmi molte domande sul cosa stavo facendo e perché lo stavo facendo. Da queste crisi, però, può rinascere lo spirito e la determinazione giusta per andare avanti, meglio di prima. Dall’altro lato, definire cosa siano i momenti esaltanti mi mette in difficoltà: sono contento nel momento in cui sono sul campo e so che sto facendo il mio lavoro».
Che cosa porterai a Genova? Il 28 e 29 maggio, sempre per la “Settimanale di Fotografia” terrai anche un workshop dedicato alla fotografia documentaria; cosa verrà trattato?
«All’incontro spiegherò quello è successo in Europa, per quanto riguarda la crisi umanitaria legata ai flussi di migranti, cercando ci capire quello che c’è dietro alle leggi, ai provvedimenti, e come questo si stia concretizzando sulla pelle delle persone. Durante il workshop cercherò di dare gli strumenti per potersi muovere nel sistema, in base a quello che si ha intenzione di fare e in base agli obiettivi che ognuno si pone».
Nicola Giordanella