Mercoledì 4 maggio, dalle 19 nella Sala Munizioniere di Palazzo Ducale, il secondo appuntamento con “La Settimanale di Fotografia” di cui Era Superba è media partner. Dopo Guido Harari, tocca a Giovanni Troilo
Mercoledì scorso, il primo appuntamento della “Settimanale di Fotografia” ha fatto registrare un’ottima affluenza di pubblico, giunto numeroso presso la Sala del Munizioniere di Palazzo Ducale. Dopo Guido Harari, che ha intrattenuto i presenti con le sue foto e i suoi approfondimenti ben oltre le due ore programmate, sbarca a Genova Giovanni Troilo, fotografo e regista, pubblicato su moltissime testate e riviste internazionali, come Der Spiegel, CNN, Wired oltre che collaborare con Rai, History Channel, Sky Arte e La7. Classe 1977, nato a Putignano in provincia di Bari, Giovanni Troilo fin da giovanissimo frequenta il mondo delle immagini, unendo la passione per la fotografia a quella per i video, due realtà per loro natura interconnesse. Questo mercoledì, dunque, si parlerà di foto e video giornalismo ed Era Superba, media partner della rassegna, anticipa i temi dell’incontro con il diretto interessato.
Nei suoi anni di esperienza sul campo, come è cambiato il lavoro, relativamente all’avanzamento tecnologico degli strumenti per catturare immagini?
«È cambiato fino ad un certo punto: nella prima fase registravo piccoli video con la mia macchina fotografica come per prendere appunti. Oggi, faccio lo stesso, ma nella fase esecutiva del lavoro, dopo la fase di studio, utilizzo lo strumento che meglio possa rendere l’idea che mi sono fatto: cinepresa, fotocamera analogica o digitale, a seconda del soggetto».
Ma nei suoi lavori, che spaziano a 360 gradi sia per quanto riguarda il prodotto finito sia per quanto riguarda il soggetto, quale può essere il filo conduttore, la cifra stilistica?
«Non posso parlare della mia cifra stilistica, sarebbe pretenzioso; spero che nei miei lavori sia riconoscibile uno sguardo, il mio approccio alle cose. In questo senso mi considero un outsider del fotogiornalismo perché stando all’approccio più ortodosso, oldschool, che vuole soggettivizzare lo spettatore, io invece cerco di far sì che chi guarda abbia un punto di vista preciso. Offrire un punto di vista sì parziale, ma quanto è parziale il soggetto. Mi sembra anche più onesto rispetto a chi cerca di restituire una verità oggettiva, cosa impossibile per un fotografo, che scegliendo cosa fotografare, compie già una selezione, avendo escluso tutto il resto».
Ma allora è il contesto dove vengono pubblicate le foto, o i video, che fa la differenza?
«Dobbiamo partire da un presupposto: ogni immagine è di per sé ambigua. Un’immagine non è la verità. A me piace lavorare su questa ambiguità perché chi guarda deve poterci vedere quello che sente in quel momento e deve poter riflettere perché una volta che dai un’immagine che si risolve da sé, di fatto non lasci spazio a nient’altro. Diventa quasi noioso. Il contesto può certo anche dare un ulteriore senso al lavoro ma non sempre è necessario per arrivare al dunque».
Parliamo di uno dei suoi lavori più recenti e in qualche modo più noti: La Ville Noir, il reportage fotografico sulla cittadina belga di Charleroi.
«Per me è stato ed è un treno straordinario, un mix di stratificazioni di storie: dalla famosa strage di Marcinelle al presente post industriale, ieri città di immigrati, oggi di disoccupati. Poi c’è una componente personale, visto che lì vive parte della mia famiglia: una realtà che quindi conosco benissimo, per cui mi sono sentito legittimato a dare il mio punto di vista. Un approccio che è il contrario di quel fotogiornalismo classico che pretende di raccontare un posto, una realtà, senza prima conoscerla, quasi che si trattasse di turismo dell’immagine».
… e poi è al centro dell’Europa.
«È un luogo simbolo di un’Europa a brandelli. Un cuore, malato: lo “scandalo” legato alle mie foto e al World Press Photo Contest è nato dalla lettera del sindaco di Charleroi, che diceva che gli scatti non davano la vera immagine della città e del Belgio intero. Oggi, con i fatti di questi mesi, nessuno sa veramente cosa sia questo Belgio. Credo, quindi, di aver violato una sorta di patto di non “raccontabilità” di questo posto».
Quali sono le difficoltà del suo lavoro?
«Parliamoci chiaro: spesso la polemica è su che cosa è e cosa non è fotogiornalismo. Ma se andiamo a vedere come viene sostenuto chi va a fare certi lavori, ci rendiamo conto che tutto questo si poggia sulle spalle volenterose dei fotografi. Come si fa a conoscere un luogo, una realtà, senza supporto? Spesso approfitto di lavori su commissione per portare avanti i miei progetti personali. “Ville Noire” è un lavoro su cui ho speso operativamente quasi un anno, recandomi sul posto molte volte: costi che nessun giornale potrebbe sostenere. Non è possibile che tutto debba essere a carico dei freelance».
Si parla spesso di sovraproduzione di immagini: tanta quantità a fronte di una scarsa cultura ed educazione all’immagine. Secondo lei è così?
«Secondo me è un falso problema. Un problema che riguarda i nostalgici che fanno fatica ad accettare i cambiamenti. Sono anni che invece noto un miglioramento del pubblico: siamo un po’ tutti fotografi e quindi siamo più attenti a come viene composta l’immagine e a quello che c’è dietro. È un fatto che ci siano anche molti più eventi, mostre, dibattiti sulla fotografia. Certo, mantenere il livello alto non è scontato ma credo che, tuttavia, il mondo dell’immagine sia solo che migliorato in questi anni: è un periodo straordinario per l’immagine. La corsa all’immagine eclatante può tagliar fuori tutto il discorso legato a tutto il corpo del lavoro che c’è dietro ma credo che sia solamente una fase».
Di cosa ci parlerà alla “Settimanale”?
«Guarderemo insieme le foto di “Ville Noir” e vorrei sviluppare il concetto per cui il lavoro fotografico può essere la fase di un progetto più ampio. Vi porterò un breve video, realizzato con gli altri scatti non pubblicati, da cui è nata l’idea di un documentario che andrò a realizzare nei prossimi mesi sempre a Charleroi. E poi vedremo altre foto e altri video, per parlare della commistione dei linguaggi della fotografia e dei video».
L’appuntamento con Giovanni Troilo è, ancora una volta, da non perdere, per gli “addetti ai lavori”, ma non solo: un’occasione per discutere con un esperto su cosa sta dietro ad uno scatto o ad una sequenza e il messaggio che ne viene veicolato.
Nicola Giordanella