Un filo rosso che passa per Sebastopoli e arriva fino alla villa del comico di Sant'Ilario. Questo filo è il fallimento del progetto politico europeo e la necessità che da qui segue di ripensare il ruolo dello Stato e il senso delle comunità nazionali in un mondo globalizzato
Qualche giorno fa Beppe Grillo posta sul suo blog una serie di “considerazioni storiche” sul futuro del paese e sulla possibilità (auspicio?) che l’Italia finisca per dividersi. Tra gli altri, Il Giornale commenta con un titolo geniale: “Grillo sale sul Carroccio”. Tuttavia nella realtà il comico non sta propugnando una precisa linea separatista. Piuttosto, come è sua abitudine, attraverso domande e periodi ipotetici, lancia il sasso e poi nasconde la mano. È il solito giochino del “megafono del movimento” che la spara grossa per ottenere la più ampia visibilità mediatica. L’obiettivo è sempre raccattare i delusi in circolazione con messaggi sufficientemente forti da dare l’impressione che la nuova forza politica sia portatrice di mutamenti radicali, ma anche sufficientemente ambigui per evitare di doversi schierare nettamente in un modo, allontanando dal movimento quelli che la pensano al modo contrario. È una strategia che abbiamo visto all’opera a proposito del tema dell’euro: e tra l’altro, a questo riguardo, i nodi stanno venendo al pettine, visto che qualcuno ha già cominciato a rinfacciare al movimento di non avere una propria posizione.
Dunque certamente non si deve scambiare l’abitudine di Grillo alla boutade per un manifesto programmatico. Purtuttavia, ciò detto, non bisogna nemmeno sottovalutare la sua capacità di puntare con decisione ai “fronti caldi”. Infatti anche in questa occasione il comico genovese ha toccato un nervo scoperto. Dopo essersi costruito un consenso con il tema dell’autoreferenzialità della Casta e dopo averlo consolidato con il tema della critica all’Europa (punti su cui gli altri partiti sono poi stati costretti ad inseguire), Grillo conferma per la terza volta un’indiscutibile capacità di anticipare gli argomenti clou della politica andando a mettere il dito nella ferita aperta. E il tema scottante, oggi, è il nodo irrisolto del ruolo degli «Stati nazionali».
È un peccato che il fondatore del M5S abbia partorito un soggetto politico con limiti strutturali e premesse ideologiche assurde: perché il fiuto davvero non gli mancherebbe. O forse sono gli altri ad essere particolarmente indietro. Comunque sia, resta il fatto che in Europa c’è un enorme problema di identità e di istituzioni politiche: e mentre gli altri si baloccano con le quote rosa, Grillo si è già mosso per cavalcare quest’onda a modo suo.
Senza dubbio il comico ha intuito che il vaso di Pandora si sta scoperchiando con le tensioni in Ucraina e la decisione della Crimea di staccarsi da Kiev per riavvicinarsi a Mosca. Questo delicato passaggio pone infatti urgenti questioni di legittimità (come notano, tra gli altri, Panorama e l’economista Jacques Sapir). Tuttavia esistono da tempo altri problemi: la Scozia che si esprimerà sull’indipendenza dall’Inghilterra il prossimo 18 settembre; la Catalogna che vorrebbe votare per staccarsi da Madrid il 9 novembre (ma è più decisamente osteggiata dal governo spagnolo); infine la contrapposizione in Belgio tra fiamminghi e valloni, che può portare il paese a fare la fine della Cecoslovacchia. Su quest’onda altre cause separatiste, come quella corsa, quella basca e quella irlandese, per non parlare di quella leghista in casa nostra, rischiano di riaccendersi.
Tutte queste vicende sono legate da un filo rosso che passa per Sebastopoli e arriva fino alla villa del comico a Sant’Ilario. Questo filo è evidentemente il fallimento del progetto politico europeo e la necessità che da qui segue di ripensare il ruolo dello Stato e il senso delle comunità nazionali in un mondo globalizzato. La vicenda ucraina, per il momento, interessa l’Unione Europea solo di riflesso; nel senso che rapportarsi a spinte autonomiste in “politica estera”, per di più con uno Stato che un domani potrebbe chiedere di diventare membro, pone un problema di coerenza nell’atteggiamento da tenere verso le analoghe spinte in “politica interna”. Ma tutto il resto, da Edimburgo a Varese, è l’espressione diretta dell’inconsistenza del progetto federale europeo.
Se mi è concesso banalizzare un po’ un problema altrimenti troppo complesso, direi che l’autorità pubblica, e quindi le istituzioni ad essa collegate, hanno senso unicamente in quanto espletano una semplice funzione: la collezione delle risorse pubbliche, ossia, in una parola, la riscossione delle tasse. Per realizzare degli scopi a livello collettivo, infatti, occorre qualcuno che abbia il consenso per usare le risorse di tutti a fini comuni. E il fine ultimo è certamente il benessere della comunità.
Tuttavia decidere sui modi in cui si persegue questo benessere e il fatto che il benessere di alcuni possa facilmente entrare in contrasto con il benessere di altri può spezzare l’unione di un gruppo sociale e delle sue istituzioni. Per questo si dice che la comunità ha bisogno di un “senso di appartenenza”: i singoli devono riconoscersi come membri di un’entità collettiva, la cui sopravvivenza valga qualche compromesso individuale e qualche sacrificio. Occorre, insomma, in termini spiccioli, benevolenza, comunicazione e comprensione reciproca, cosa che richiede inderogabilmente il riconoscimento tra i membri di una comunità di tratti comuni.
Questo “senso di identità” comunitario deve essere evidentemente esclusivo. Come appartenenti al genere umano abbiamo certamente tutti dei caratteri comuni. E all’opposto come individui siamo tutti unici e diversi. Ma da un punto di vista sociale e culturale siamo simili ad alcuni e diversi da altri. Le comunità si definiscono e si riconoscono, dunque, grazie a un’identità comune ed esclusiva. Ciò non toglie che, come si diceva, il senso di una comunità è il mantenimento del suo benessere: tuttavia la precondizione perché si realizzi la ricerca collettiva del benessere è il superamento delle diffidenze reciproche attraverso la costituzione di un’identità collettiva.
Questa almeno, a grandi linee, è stata la lezione che ci aveva consegnato la modernità fino al secolo scorso, quando due guerre mondiali hanno posto il problema di come evitare il rischio di nazionalismi conflittuali. A questo argomento, poi, si sono aggiunte le dinamiche della globalizzazione, interpretata come sviluppo di fenomeni e soggetti transnazionali che richiedono una forma di controllo politico più elevato rispetto alle singole autorità nazionali.
Quella che in questi anni abbiamo chiamato “identità europea” altro non era che la cultura standardizzata dell’occidente civilizzato
Il progetto di unificazione europeo va considerato in questo contesto. Nelle intenzioni esso doveva essere, da un lato, una prima risposta politica ai problemi posti dalla globalizzazione e dal rischio della conflittualità tra nazioni; dall’altro lato, come autorità pubblica, avrebbe dovuto basare il proprio consenso su un benessere generale conseguito attraverso la mera gestione tecnocratica. In altri termini, secondo le élite che hanno guidato il processo, non sarebbe stato necessario tanto fondare il consenso su ragioni ideologiche o identitarie: sarebbe bastata la prosperità economica, garantita dai governanti in virtù della loro conoscenza tecnica delle leggi dell’economia.
Il problema dell’identità, cui facevamo accenno prima come indispensabile, veniva eluso facendo la somma delle identità preesistenti. Non c’era, infatti, e non c’è mai stata, alcuna riflessione su una possibile “identità europea” diversa da altre identità culturali e politiche nel mondo. Tra Gran Bretagna, Spagna e Danimarca non ci sono, al fondo, tratti comuni particolari che non siano al contempo condivisi da Canada o Nuova Zelanda. Questo significa che quella che in questi anni abbiamo chiamato “identità europea” altro non era che la cultura standardizzata dell’occidente civilizzato, che ha una lingua e una visione politico-economica di derivazione anglosassone.
Pertanto, senza una vera identità comune e con un approccio multiculturale, il risultato del tentativo di unificazione l’Europa non poteva essere che l’esaltazione delle componenti identitarie locali. Infatti, se il progetto politico è la “nazione”, è ovvio che c’è un superiore “interesse nazionale” al quale le aspirazioni locali, in ultima analisi, si devono piegare: l’integrità della Spagna, in quest’ottica, viene prima delle esigenze di autonomia della componente basca. Se però, al contrario, gli Stati dovranno alla fine confluire verso un super-Stato federale europeo, in un quadro di equidistanza e pari dignità di tutte le componenti, allora è chiaro che baschi, catalani, andalusi e spagnoli hanno tutti lo stesso diritto a vedersi riconoscere un’eguale autonomia. Ecco dunque come la spinta centripeta del progetto federale riveli in realtà un esito centrifugo all’affermazione di identità locali.
Questo processo disgregativo, per di più, è esasperato dalla crisi economica: una crisi che, giova ricordarlo, è tutta europea. Il ripiegamento su stessi viene vissuto, dunque, non solo come il diritto all’affermazione della propria identità, ma anche come la risposta a un problema economico che l’Unione Europea non sa affrontare. Le “regole europee”, espressione di un tecnicismo centralizzato favorevole alle multinazionali (non certo alla salvaguardia delle economie locali), diventano l’odioso simbolo di un disagio troppo grande. E così è completo il fallimento del progetto federale, che prima ha preteso di poter dare benessere con la tecnica ignorando il problema politico dell’identità; e oggi fallisce anche quell’obiettivo di benessere che era la sua unica ragione, regalando povertà e disoccupazione e tirando il freno alla ripresa globale.
Agli Stati per anni è stato raccontato che tutti i loro problemi dipendevano dalla mancanza di un’entità politica più grande: ora che l’Unione più grande ce l’abbiamo e i problemi sono aumentati a dismisura, ci si può ancora ostinare a credere che l’integrazione raggiunta sia insufficiente (ossia che ci vuole “più Europa”), ma non si può davvero biasimare chi invece va alla ricerca di una maggiore autonomia locale. L’ormai prossima fine del progetto europeo, dunque, non ci riporterà magicamente alla situazione che c’era prima di Maastricht; ma ci consegnerà a una situazione di forte incertezza politica causata dalla demolizione delle precedenti certezze. È il frutto amaro di una lotta ideologica allo Stato che va avanti da almeno trent’anni e che a questo punto dovremmo ripensare.
A questo proposito la settimana prossima esamineremo il caso dell’Italia, cercando di trarre la giusta lezione dal fallimento dell’Europa e provando a domandarci se davvero parlare di “nazione italiana” nel terzo millennio, come lascia intendere Grillo, non abbia più alcun senso.
Andrea Giannini
E’ chiaro, che la questione posta da Grillo sia una mera provocazione. Il suo stile comunicativo è sempre lo stesso e lo trovo molto efficace. Pone delle questioni con toni aspri, provocatori, a tratti inauditi. Ma lo scopo è far riflettere, sbatterti in faccia l’estrema pericolosità di una situazione, risvegliando così le coscienze poiché ognuno di noi deve confrontarsi con quel pensiero.
Riguardo ai “limiti strutturali e le premesse ideologiche assurde” del M5S, penso di non essere d’accordo totalmente. Non dimentichiamo che è un movimento giovane, farà molti errori, ma gode di rispetto e fiducia da parte delle persone; tali caratteristiche non appartengono più ai partiti, verso i quali si può parlare di speranza, più o meno disillusa, ed è cosa ben diversa.
Per onestà intellettuale occorre dire che ogni passo in avanti che riusciremo a fare sarà stato grazie all’ingombrante presenza del M5S.