Il rapporto Eurostat ha dimostrato che i salari in Italia sono tra i più bassi d'Europa: sindacati, conflitti di interesse e istruzione sono le tre cause principali
Quasi tutti i giornali lunedì hanno aperto con la notizia del rapporto Eurostat sul mercato del lavoro. L’Eurostat è una Direzione Generale della Commissione Europea che si occupa di fornire statistiche; e la statistiche in questione ci interessano molto da vicino, anche se sanciscono quello che già si sapeva: vale a dire, che siamo tra i meno pagati di Europa.
La retribuzione media lorda in Italia è pari a 23.406 euro, mentre in Germania, ad esempio, è praticamente il doppio (41.100 euro). Questa notizia fa il paio con quella di qualche giorno fa relativa alla pubblicazione delle retribuzioni dei ministri e degli alti dirigenti pubblici, voluta dal governo Monti per ragioni di trasparenza della pubblica amministrazione. Di qui sono emerse cifre stratosferiche. Era prevedibile che il ministro Passera e il ministro Severino si rivelassero due “paperoni”, viste le professioni che svolgevano in precedenza (rispettivamente avvocato di successo e AD del gruppo Intesa San Paolo).
Forse stupisce un po’ di più leggere che il capo della polizia Manganelli ha guadagnato in un anno 621.253,75 euro. La somma appare ancora più spropositata, se confrontata con la retribuzione del capo di Scotland Yard, che prende circa la metà (meno di 300.000 euro), o con quella del capo dell’FBI, che ne prende “solo” circa 116.000.
Questi dati sanciscono un quadro già ampiamente noto. Nel nostro paese il mercato del lavoro non è omogeneo: una parte minoritaria può accedere a guadagni molto elevati, ma la maggioranza delle persone si deve confrontare con un tenore di vita in netta diminuzione. A tutti i livelli, il semplice fatto di “essere dentro”, cioè di avere già un contratto, competenze, amicizie, parentele o liquidità garantisce il perpetuarsi dello status quo; mentre il fatto di “essere fuori”, cioè di doversi conquistare tutto dall’inizio, esclude dall’accesso a un tenore di vita migliore.
La mobilità della scala sociale è bloccata e questo spiega la differenza dei massimi e dei minimi di retribuzione che c’è tra noi e la Germania: da noi i poveri restano poveri, mentre i ricchi diventano sempre più ricchi. Come mai? E’ ovvio che, quali che siano gli strumenti per scardinare l’immobilismo sociale, da noi non funzionano. Questi strumenti, che in Italia si rivelano inefficaci, classicamente sono tre.
Il primo è il sindacato. La redistribuzione della ricchezza parte dalle iniziative sindacali per trattare migliori condizioni e migliori retribuzioni. Ma se abbiamo un costo del lavoro molto alto, che è un peso per le aziende, e un adeguamento salariale bloccato, è evidente che i sindacati funzionino male o che abbiano sbagliato strategia. Ad esempio, salta subito all’occhio che i sindacati italiani sono divisi e si fanno dividere facilmente. Ma è probabile anche che abbiano sbagliato tante volte obiettivo, difendendo chi non andava difeso o lasciando andare chi meritava maggiori tutele.
Il secondo strumento sono i controlli. Chi occupa posizioni di privilegio o di potere può abusarne per consolidare e prolungare lo status quo. Se esistono enti terzi ed indipendenti con adeguatati strumenti di controllo e poteri di sanzione, il rischio di abusi è limitato e il ricircolo assicurato. Purtroppo in Italia il conflitto di interessi è la costituzione non scritta: controllato e controllore si danno del tu e si nominano a vicenda, garantendosi le poltrone e vanificando intromissioni esterne.
Il terzo strumento è l’istruzione. Niente più della preparazione culturale e della qualificazione professionale garantiscono l’ascensione sociale. L’impegno e le qualità personali, in un sistema che garantisce a tutti l’accesso all’insegnamento, sono la migliore arma a disposizione del singolo per migliorare il proprio tenore di vita. Ma in Italia l’istruzione poche volte garantisce una qualifica utile da spendere nell’attività lavorativa; e di solito, gli istituti che garantiscono una buona preparazione, sono frequentati per lo più dai figli dei ricchi. L’insegnamento pubblico è stato per anni uno sfogo per assunzioni di massa clientelari; e oggi gli insegnanti sono precari, demotivati e malpagati. Secondo un rapporto dell’Istat del 2009 i giovani laureati italiani sono il 19% contro il 30% della media europea. Inoltre siamo scarsi anche nella formazione di chi già lavora. E’ ovvio che una buona politica industriale e fiscale è una componente essenziale per l’economia; ma una buona riforma del lavoro, per essere presa sul serio, dovrebbe partire da una seria riforma dell’istruzione, che nessun governo ha finora davvero affrontato. Se questi tre strumenti continuano ad essere inefficaci, tutti i discorsi su modernità, flessibilità e articolo 18 resteranno sempre accademia.
Andrea Giannini