E' necessario ricostruire il legame virtuoso di controllo dell'opinione pubblica tra i soldi che vanno via con le tasse e i servizi che si pretende di avere in cambio
Nello scorso articolo ho parlato di tasse e ho concluso auspicando che la questione fiscale possa diventare anche nell’Italia di oggi, come sempre è stato nella storia, il fulcro per lo sviluppo democratico del paese. Il cancro del malaffare, degli interessi particolari, della crisi della rappresentanza politica e del disinteresse verso la cosa pubblica può essere curato a partire proprio da qui, dall’esigenza di una politica di tassazione più equa e intelligente.
Capisco che molti tendano a disgiungere il tema della democrazia e dei diritti da quello della gestione delle risorse dello Stato, essendo il primo un argomento con una sua validità teorica a priori e il secondo un argomento decisamente più pratico che si valuta empiricamente caso per caso. Eppure, nonostante ciò, i due aspetti sono fortemente collegati. E lo si vede bene proprio nella situazione attuale. A causa della crisi del debito sovrano, il governo Monti, che non è riuscito finora a convincere la Merkel a cambiare le regole dell’UE, non ha trovato niente di meglio da fare che alzare le tasse e inasprire la lotta all’evasione, che è un serbatoio di risorse sottratte allo Stato potenzialmente enorme. Non c’è dubbio che se tutti pagassero le tasse, le casse pubbliche non sarebbero più a rischio e quindi chi specula contro di noi avrebbe vita difficile.
Ma resta il problema di come fare, in concreto, per combattere l’evasione. Milena Gabanelli a Report ha suggerito un’idea che, se si potesse effettivamente mettere in pratica, sarebbe l’arma definitiva: l’abolizione del contante.
Molti non sono d’accordo: pensano che si tratti di una proposta utopistica, che metta a rischio la privacy e che verrebbe piegata, alla fine, agli interessi del sistema bancario, ben contento di poter costringere tutti i cittadini a pagare le commissioni di un conto corrente. Comunque stiano le cose, per spirito di discussione, proviamo ad immaginare cosa succederebbe se questa idea venisse effettivamente attuata e se sortisse l’effetto desiderato: proviamo ad immaginare un’Italia in cui l’imprenditore non possa più falsificare i bilanci e l’operaio non possa più arrotondare lo stipendio facendo lavoretti extra nel week-end. Cosa succederebbe?
Succederebbe che i consumi, nel primo periodo, sprofonderebbero e l’economia ne risentirebbe in negativo. Personalmente ho pochi dubbi a riguardo. Se tutti gli Italiani si ritrovassero a pagare più tasse, cioè a dare più soldi allo Stato, è ovvio che potrebbero spendere di meno, cioè avrebbero meno soldi da dare ad altri cittadini in cambio di beni e servizi. Quindi avremmo un forte ribasso dei consumi, ingigantito dalla percezione psicologica di una minore disponibilità di liquidi che accentuerebbe la propensione delle famiglie al risparmio. Insomma l’economia sprofonderebbe in una recessione ancora maggiore.
Certo la speculazione internazionale allenterebbe significativamente la morsa, e questo sarebbe un enorme risultato, perché ci porterebbe probabilmente fuori dal rischio bancarotta. Ma resterebbe il problema di un’economia più povera che non saprebbe più come ripartire. Lo Stato non si potrebbe rimettere a spendere come prima: adesso c’è anche il pareggio di bilancio in Costituzione. Gli investimenti stranieri rimarrebbero comunque scoraggiati da una tassazione elevata. Il cittadino, infine, non potrebbe più alleggerire la pressione fiscale con la piccola evasione, che sarebbe impossibile senza più contante in circolazione. A questo punto c’è poca scelta: alla gente non resterebbe che prendersela con la politica e sarebbe una rivoluzione enorme. Saremmo costretti cioè a rivolgere la nostra attenzione contro gli sprechi, i costi della corruzione, il malaffare e la cattiva gestione della cosa pubblica e non sarebbe facile per la classe dirigente uscire indenne anche dal più piccolo scandalo: perché il cittadino, non avendo più altra strada, difficilmente accetterebbe di continuare a foraggiare una spesa pubblica fuori controllo.
Si ricostituirebbe insomma il legame virtuoso di controllo dell’opinione pubblica tra i soldi che vanno via con le tasse e i servizi che si pretende di avere in cambio. Aumenterebbe l’attenzione verso la gestione del denaro pubblico e di conseguenza la partecipazione democratica. Gli onesti verrebbero premiati e la meritocrazia sarebbe un fattore di impulso economico. Gli sprechi calerebbero vistosamente, la spesa pubblica dimagrirebbe e sarebbe più equilibrata. Si sposterebbe la tassazione in modo da renderla più equa e da ultimo avremmo una sua riduzione.
Fino a ieri non ci preoccupavamo veramente della differenza che c’è tra pagare tributi di guerra, pagare il pizzo alla mafia e pagare le tasse: sono sempre soldi che ci escono dal portafoglio. Eppure solo nell’ultimo caso c’è una motivazione sociale, la possibilità di esercitare un controllo e un servizio che ci viene dato in cambio. Senza più scorciatoie, saremmo costretti a rendercene conto e a pretendere da coloro ai quali affidiamo la gestione che le cose vadano davvero così. In fin dei conti, se diamo moneta, si tratta solo di pretendere di vedere cammello.
Andrea Giannini