La seconda parte del diario di viaggio di Anna, Lucio e Gaia. La famiglia è partita da Genova alla ricerca di nuovi stili di vita. «Perché la vita che abbiamo impostato è figlia di quella che ci hanno insegnato. E la stiamo ripassando a nostra figlia. Con gli stessi vizi, le stesse paure. E allora lasciamo tutto per sei mesi, portiamoci solo due valige e re-impariamo da zero»
Le yurte sono tende della Mongolia. Ci abitano i pastori credo, le si vedono nei documentari, grandi e circolari in mezzo a queste immense pianure mongole battute dal vento, intorno persone e animali strani.
Siamo in una yurta, ora. Ma non in Asia. Siamo sulle colline di Bologna, niente pianure mosse dal vento ma solo una leggera pioggerellina che batte sui teli. Alberi sopra la testa, cellulare sul comodino nell’ultimo punto in cui prende un pochettino.
Siamo qui, ad aspettare che ci chiami un giornalista per un’intervista. È la seconda oggi. Ora sembra che lo dico per fare i fighi, nella yurta che ci spariamo le interviste… ma io e Anna ci stiamo chiedendo come mai se una famiglia decide di mettere in stand-by la propria vita questo diventa una notizia da due pagine a colori. Ci fa pensare che forse la nostra libertà non sta benissimo.
Ve ne racconto una. La settimana scorsa abbiamo presentato il progetto ad un gruppo di boyscout. Proiettato i trailer eccetera. Alla fine delle nostre chiacchiere arriva una ragazza e mi dice: Non capisco come fai a lasciare la famiglia e gli amici, la casa per sei mesi… | E io le rispondo: Scusa, pensa se mi chiamassero da Dubai e mi dicessero, oh c’è un lavoro per te da regista ti paghiamo un botto, vieni, ti diamo la casa pure per la famiglia e io con la mia famiglia andiamo. Non capiresti lo stesso? | No. In quel caso capirei. | Perché? | Perché è lavoro. E ti staresti prendendo cura della tua famiglia. | Quindi ora non mi sto prendendo cura della mia famiglia? | No. Non state guadagnando. E avete lasciato il lavoro quando c’è gente che si dispera per averlo.
Capisco che per lei fare una cosa per diletto è una cosa da ricchi, un insulto alla povertà. Boh, chissà se è vero. Ci abbiamo messo un annetto ad organizzarci, perché i soldi per andare in giro tutto quel tempo e pagare pure il mutuo non ce li avevamo. La casa un po’ la scambiamo con homelink, un po’ la condividiamo con Airbnb, in modo che si possano fronteggiare le spese di mutuo. E se per le nostre tappe usiamo scambiare lavoro per vitto e alloggio, per viaggiare ci siamo arrangiati con il baratto. Abbiamo accumulato cene con Gnammo, notti con Airbnb… Con il baratto online di Reoose abbiamo scambiato roba che non usavamo con robe utili e via.
Ora stiamo scambiando questo tesoretto con i passaggi di BlaBlaCar. Un sito dove trovi passaggi in auto. Ora lo so qual’è l’associazione comune. Passaggio uguale svegliarsi in un fosso senza un rene. Invece niente, mi dispiace per il tigicinque ma stiamo parecchio bene. Nessun assassino. Le persone sono stranamente affidabili e simpatiche.
Ieri, con sta storia dei baratti e dello scambio lavoro abbiamo fatto due conti: 300 euro spesi in tre mesi di viaggio. Piccoli regali per chi ci ospita con il couchsurfing, gelati, e qualche driver di bla bla car che preferiva il denaro ad un baratto.
Una cosa affascinante che stiamo usando in questo viaggio è la banca del tempo, lo facciamo con Timerepublik un sito dove ogni scambio si fa con il tempo. Per esempio prima di partire, visto che io e Anna siamo due grafici, abbiamo preparato delle locandine ad un regista. Il nostro preventivo era 12 ore di tempo. Il regista ci ha sballato, ci ha dato un feedback positivo e ci ha accreditato le nostre ore, che abbiamo in gran parte “girato” (tramite il sito) ad un professionista che ha scritto il comunicato stampa di Unlearning e un traduttore che lo ha rifatto in inglese. Il tempo rimanente lo abbiamo scambiato con una ragazza che ci ha aiutato a fare le pulizie in casa prima di partire. Rimaneva ancora un’ora e in Puglia Anna ci ha “pagato” una lezione di Yoga. Le possibilità sono infinite e la cosa figa (forse un po’ utopica, ma mi piace) è che un’ora vale un’ora. Super Fuckin’ democratic. Un’ora di un ingegnere nucleare vale come un ora di conversazione. Se fosse sempre così… Ve lo immaginate il mondo?
Rieccomi in Yurta. Siccome la chiamata del giornalista tarda ad arrivare, vi racconto anche un po’ del viaggio, di cui questo articolo è la seconda parte. Nella prima vi avevo raccontato dalla partenza alla Sicilia. I primi due mesi di viaggio.
La tappa successiva è stata in Puglia, Cisternino, e ce se siamo stati un po’ da Sergio. Sergio è un artista che lavora con il riciclo e il suo trullo è arredato e decorato con oggetti recuperati dal materiale che il mare porta a riva con le mareggiate primaverili.
Il nostro pollo a 4 zampe rielaborato da Sergio con un cerchio di botte, fanali d’auto birilli e plastica abbadonata
Ad esempio la maniglia della nostra camera da letto è un mestolo piegato. Le lampade sono tubi da doccia che terminano con vecchi vasi forati. Mi racconta come fare una lampada, come fare un mobile con i bancali e penso che sarebbe fighissimo ma so che quando tornerò a casa non avrò tempo di fare un cazzo ,che ci sono le bollette da pagare e la bambina da prendere a scuola, così la domenica si andrà dagli svedesi nella zona commerciale e ci si riempirà di polpette e marmellata.
Mi sa proprio che se si vuole cambiare bisogna recidere tutto, non credo nei compromessi. Anna un po’ di più, mi dice che può esistere un buon modo di abitare la città, di cambiarla, ma non so.
Sergio mi spiega la povertà, la raccolgo in un’intervista bellissima che metterò nel documentario. Un’altra cosa figa della Puglia è stato l’incontro delle scuole libertarie. Scuole dove i ragazzi hanno lo stesso potere decisionale degli adulti. È una figata, ce ne sono diverse in Italia. Scuole libertarie per imparare ad essere liberi. Mentre i bambini nudi giocano nel fango davanti alla comune di Urupia (ah dimenticavo… l’incontro lo hanno fatto qui), mi chiedo se la libertà si può insegnare. Mi sembra una cagata come concetto. Ovvero, se sei uno spirito libero lo sarai comunque, sfanculerai tutti e lo sarai. A prescindere dalla scuola che farai. Chi era che diceva che “c’è gente che pagherebbe per essere schiava”… Ah, ecco Victor Hugo… “C’è gente che pagherebbe per vendersi”. Ecco cosa diceva.
Forte di questa cosa vado da Agostino che qui a Urupia ci vive e gli chiedo se la libertà si impara. Ci pensa un poco prima di rispondermi. Poi mi dice che la libertà si disimpara, si disimpara soprattutto nella famiglia tradizionale “adultocentrica” dove le decisioni vengono prese da due adulti, che spesso per deliberare qualcosa litigano pure fra loro. E trovarsi in una struttura non adultocentrica ti aiuta a ragionare in un altro modo. Ecco il perchè di una scuola libertaria.
Qui poi ci sono un sacco di insegnanti di scuola statale, saranno 20, che sono pentiti di essere i servi del bandito e fanno una lunga riunione su come poter lottare e migliorare la scuola pubblica. Sono molto carini, mi viene in mente una foto che ho visto su internet dove si vede una cintura di proiettili di una mitragliatrice pronti ad essere sparati. Su ognuno c’è scritto a pennarello “SORRY”. Alla fine della riunione decidono di fare una mailing list per poter continuare a lottare.
Fuori dalla riunione conosciamo Emily. Prima voleva fare l’acrobata, poi ha fondato una scuola libertaria in centro Italia. «Perchè tanto la scuola pubblica non si può cambiare, fa bene il suo mestiere…». Ci racconta il suo progetto, dove i genitori sono parte integrante e, se il figlio vuole andare là, devono cominciare sei mesi prima a seguire le riunioni. Insomma non devono delegare alla struttura l’istruzione ma esserne partecipi.
Ci piace la cosa, ci da un passaggio di 600 km sino alla scuola e noi in cambio le lasceremo casa nostra a Genova per una settimana di mare. Il posto è meraviglioso, immerso nella campagna. I genitori arrivano, si fermano con i piccoli dell’asilo. Cucinano. Non si preoccupano se i loro bambini salgono sugli alberi. Si chiama “diritto al rischio” mi spiegano. Ma la cosa più bella me lo dice un papà: «Questa non è una scuola per bambini, è una scuola per genitori».
Con Emily saliamo anche a Rimini, dove quel week end si riuniscono genitori ancora più hardcore che fanno scuola familiare, o home schooling che fa più figo. Trovo Erika e le chiedo se questi bambini che non vanno a scuola non sono poi isolati e soli. «Perché scusa tu a scuola durante le lezioni socializzavi o dovevi stare zitto?» Stavo zitto. E quando socializzavi? Nell’intervallo e quando prendevi il bus. Non diciamoci bugie dai… E poi in classe con chi eri? Con bambini che avevano tutti la stessa età… Scusa ma i tuoi amici hanno tutti 35 anni come te? | No, le rispondo. | Piuttosto innaturale non trovi? | Trovo.
Vorrei chiederle come impara un bambino allora, ma meglio chiederlo al diretto interessato. Prendo la camera e faccio un’intervista. Eccola.
Dopo tutte queste scuole ci spostiamo a vedere un cohousing: si chiama Ecosol ed è un condominio fuori Fidenza. Pannelli solari a parte, sembra il solito palazzo di periferia. Ma la sua storia è molto bella. Gli abitanti si conoscono da anni e si sono detti “perché non andiamo a vivere insieme?”
Questa domanda può dare il via a mille soluzioni e quella di Ecosol può sembrare all’acqua di rose, ma nella sua semplicità spacca tutto! Non è che si vive in comunità tipo “comune anni ’60”. Ognuno ha il suo appartamento esattamente come lo desiderava e in più ci sono spazi comuni da usare a piacimento. Un grande salone con cucina. Orto. Lavanderia. Una cella frigorifera e una dispensa comune. Sul tetto i pannelli solari alimentano tutto: dai riscaldamenti ai condizionatori, dalle piastre ad induzione al boiler. L’amministrazione se la fanno loro. E le spese sono zero (sì, il gas non c’è, ve l’ho detto, è tutto elettrico).
Poi è importante sottolineare una cosa fondamentale: è una comunità intenzionale. I condomini si sono scelti. Hanno deciso come abitare e si sono fatti la casa su misura, che soddisfacesse un bisogno comune di basso impatto energetico e rispetto dell’ambiente. Con il costo di un normale appartamento.
E poi conoscersi prima ha un grande vantaggio. Ovvero a fianco non hai un vicino sconosciuto. Hai amici di una vita. Se ci penso a come abbiamo scelto la nostra casa di Genova è follia: scegliamo la casa perché ci piace la zona, l’esposizione, le stanze (ma poi dobbiamo personalizzarla e la radiamo al suolo quasi sempre) e non ce ne frega granché dei rapporti umani, del vicinato.
Stiamo poco a Ecosol perché ci aspettano ad un ecovillaggio a Zocca, poco lontano. Lì la vita comune è più estrema: chi abita l’ecovillaggio ha un piccolo spazio personale (un bauwagen o una yurta) e tutto il resto della vita (e degli spazi) sono in comune. Si raccoglie la legno e la mattina parte prestissimo, a lavorare nel grande orto sinergico dove le piante crescono insieme. Mi spiego meglio. Non ci sono tipo blocchi di insalata e blocchi di fagioli. Le piante crescono insieme con un aspetto di caos controllato dallo strano fascino. Nulla è casuale, perché gli ortaggi si aiutano a vicenda: ad esempio, vicino ai fagioli le zucche. «Insieme crescono meglio», mi spiega Massimiliano.
Ci sono tre bimbi meravigliosi, liberi, selvaggi. Li sento urlare insieme a Gaia mentre strappo il convolvo che sta cercando di soffocare le piccole piante di mais. Sembra di vivere nel passato tranne che nell’ora dei mondiali. Allora appaiono magicamente televisore e bottiglie di birra. «Dovete andare al Bigallo» dice Lavinia , che qui fa la woofer come noi (ovvero scambia lavoro con ospitalità). «È tipo un ecovillaggio, ed è la sede del circo Paniko. L’aspetto artistico lì è molto forte, vi piacerà».
Ci fidiamo perché la fiducia è ormai il motore del nostro viaggio. All’inizio, con la forma mentis del lavoro in città, avevamo pianificato tutto e fatto un trailer. Tutto era studiato al millimetro. 17 giorni a Malta. Poi passaggi fino in Toscana. 15 Giorni in ecovillaggio, e via così. La pianificazione ci dava un morbido limbo di tranquillità. Pochi giorni prima di partire ci chiamano da Malta. «Abbiamo grossi problemi, non possiamo ospitarvi». E che si fa? Si parte lo stesso. Inizialmente con la paura del non pianificato. Poi magicamente le cose girano, ogni posto ci suggerisce il successivo. Nascano nuove idee. E noi ci adattiamo a seguire quello che succede, accusando ogni volta la stanchezza di ripartire da zero, inserirsi in un nuovo contesto e ripartire.
Gaia soffre gli adii, le partenze per lei sono improvvise e ha imparato a portarsi dietro sempre qualcosa dal posto che ha appena lasciato. Un sasso. Una collana. Un panino al prosciutto. Se lo stringe forte in mano mentre si addormenta in macchina e noi raccontiamo per l’ennesima volta il progetto al driver che ci porta verso la nuova tappa.
Bigallo dicevo. Eccoci. Siamo arrivati ieri sera. Di notte. Ci hanno accompagnato alla nostra yurta, che si raggiunge solo con una ripida salita. La notte ha portato sonni lunghi e precisi, come se la forma rotonda della tenda conciliasse i flussi dell’ inconscio.
Anche nei trulli era così, ma meno intenso. Il telefono vibra sul comodino. Ecco il giornalista, è assonnato, deve aver dormito molto pure lui. «Bella questa cosa di Unlearning– mi dice – ma tipo disimparate tutto e diventate dei primitivi?». Uff. No amico. Gli spiego che per “disimparare” non intendiamo andare in giro nudi, accendere il fuoco con le pietre, ululare alla luna e sgranocchiare radici vegan. Per noi Unlearning è fare tabula rasa di quella che era la nostra vita di città, dei nostri giudizi e dei nostri retaggi culturali.
Perché la vita che abbiamo impostato è figlia di quella che ci hanno insegnato. E la stiamo ripassando a nostra figlia. Con gli stessi vizi, le stesse paure. E allora lasciamo tutto per sei mesi, portiamoci solo due valige e re-impariamo da zero.
Ah, capito, mi dice il giornalista. Comincio l’intervista. Forza, che poi si scende al Bigallo e vediamo che cosa succede. Intanto voi seguiteci su Unlearning. Rock and Roll.
Anna, Lucio e Gaia