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Ecco a voi l’Italenglish, l’uso improprio delle parole inglesi

Le parole inglesi nell’italiano: necessità o status symbol? Spesso si tratta di abusi linguistici tipici di business man o politici che in realtà non sono in grado di sostenere una conversazione in inglese


26 Luglio 2012Rubriche > Nice to meet you, English!

“It’s a game of give and take,” è un gioco di dare e prendere: così recita il testo di una canzone di grande successo degli anni Sessanta.

L’inglese ha preso, assorbendo parole da diverse lingue , ma ha anche dato: termini come weekend e jeans (derivante da “Genova”) sono ormai entrati nel lessico quotidiano in modo evidente.

L’invasione English fagociterà quindi l’italiano? Uno studente qualche giorno fa mi sollevava proprio questo dubbio, sostenendo che dato che a scuola i bambini imparano l’inglese in prima elementare, il rischio è che la nostra lingua sia cancellata. E’ vero, si inizia a studiare inglese in età più giovane rispetto al passato, ma basta questo per mettere in pericolo l’italiano? La realtà dice che – purtroppo – dal punto di vista della conoscenza dell’inglese i nostri studenti che terminano la formazione secondaria sono indietro rispetto ai pari età olandesi e scandinavi, trovando così in alcuni casi preclusa la possibilità di studiare in atenei stranieri.

Non deve nemmeno spaventare più di tanto,  specialmente nel settore tecnologico, una presenza di vocaboli inglesi attestata a volte su valori superiori al 10%. In campo informatico, per esempio, è naturale che vi sia riverenza nei confronti della terminologia specifica inglese. Se con aziende come Apple, Google e Microsoft gli USA sono i leader in campo di innovazione e produzione, è normale che in italiano siano stati assorbiti prestiti quali software, hardware, mouse, ecc. A questi si aggiungono peraltro i più recenti smart phone e social network.  D’altra parte, in campo musicale l’inglese stesso ha assorbito parole italiane come opera o libretto, a dimostrare la grande considerazione nei confronti della nostra cultura.

Tuttavia, una lingua non ha solo una componente lessicale, ma anche sintattica e fonologica e per il momento l’afflusso nell’italiano di nuovi fonemi o strutture grammaticali e sintattiche inglesi è irrilevante.

Un’analisi a parte merita invece l’uso di parole inglesi come status symbol, da mostrare come un SUV fiammante per  fare la spesa a cento metri da casa. Questo abuso, più che uso, è tipico specialmente degli yuppie de’ noantri, ovvero quei business men  – o presunti tali – i quali, rimpiangendo di non essere nati a Manhattan  in epoca Reagan, provano a scimmiottarne il linguaggio, parlando di fee e customer anziché usare i corrispettivi “parcella” o “provvigione”e “cliente”. Si arriva poi a paradossi, con espressioni che in inglese, quello vero, risultano inesistenti o insolite. Tempo fa al telefono un fornitore parlava di un delta cash, espressione astrusa per indicare – credo – che oltre a uno scambio merce voleva anche una differenza in denaro.

Una vera chicca è la parola management, pronunciata – erroneamente – ponendo l’accento sulla seconda sillaba, che le dà un suono terribilmente simile a: “Mannaggia!” Onde evitare queste figure, si consiglia ai nostri aspiranti yuppie di dimenticare il Michael Douglas investitore-squalo di Wall Street e andare sul sicuro con le italianissime “gestione” e “dirigenza”.

Scherzi a parte, in un’economia globalizzata è preoccupante che, salvo poche parole da sfoggiare come un Rolex, buona parte della nostra classe dirigente non sia in realtà in grado di sostenere una conversazione in inglese di una durata superiore ai tre nanosecondi.

Se tuttavia i nostri Gianni Agnelli in erba fanno anche tenerezza, più odioso è l’uso fuorviante di parole inglesi per confondere le persone più indifese.

Parlare di “tagli” o anche della formula già di per sé attenuata “revisione delle spese” sarebbe stato un messaggio troppo chiaro per la gente comune: ecco quindi per annebbiare la comprensione la formula della “spending review”. Emblematico è anche il caso del beauty contest (“concorso di bellezza”), ovvero la “gara” che avrebbe dovuto assegnare gratis le frequenze generate dal passaggio al digitale terrestre. Dove stiano sfilando le miss partecipanti ancora ce lo stiamo chiedendo…

Daniele Canepa
[foto di Diego Arbore]


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