Stato e politica, cittadini e società civile, ci accostiamo a questa commemorazione nella più totale impreparazione a farci interpreti della sua profonda eredità morale. Il messaggio di Borsellino è ancora ignorato
Venti anni fa in Via D’Amelio, a Palermo, un’autobomba uccideva il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. La ricorrenza che oggi ci troviamo a vivere, per la sua bruciante attualità, è tutto fuorché serena. Non solo a causa delle indagini giudiziarie su quella travagliata stagione, che le procure di Firenze, Palermo e Caltanissetta stanno portando faticosamente a termine; non solo perché la difficile situazione finanziaria costringerebbe il paese ad affrontare con ancora maggiore intensità, se è possibile, il problema delle risorse sottratte all’economia legale dalla criminalità organizzata; ma soprattutto perché lo Stato e la politica, dopo tanti anni, si accostano a questa commemorazione nella più totale impreparazione a farsi interpreti della sua profonda eredità morale.
Ciò significa constatare con rammarico che, al di là del prevedibile teatrino di celebrazioni, corone di fiori, riconoscimenti, attestazioni di stima postume e discorsi commemorativi, a pochi, tra i rappresentanti delle istituzioni e quelli del popolo, viene spontaneamente riconosciuta l’autorità per esprimersi nel ricordo di Paolo Borsellino. A questa incombenza saranno certamente chiamati familiari, amici ed ex-colleghi di lavoro, alcuni dei quali, in effetti, sono oggi impegnati in politica oppure svolgono funzioni pubbliche nella magistratura. Ma al di là di questa cerchia c’è da dubitare che si possa dare per acquisita e metabolizzata la lezione storica di Falcone e del suo più caro amico. Anzi, sia tra gli attuali vertici dei partiti, sia tra le più alte cariche dello Stato, molti l’hanno colpevolmente, se non volutamente, ignorata.
Certo in momenti come questi non c’è niente di più sgradevole che pretendere di farsi portavoce del vero pensiero e delle autentiche volontà dei morti, che chiamati in causa non possono più replicare. Ma è anche vero che sono state pronunciate parole talmente forti che oggi solo chi è in mala fede può far finta di non intendere. E sono state pronunciate con questa forza – in barba a chi dice che la magistratura dovrebbe fare il proprio lavoro in assoluto silenzio – proprio perché fossero udite anche da quelli che erano più distanti geograficamente, culturalmente o temporalmente; perché anche chi era troppo giovane per capire o troppo distante per compatire comprendesse che era richiesto anche a lui di non mettere la testa sotto la sabbia e di raccogliere il testimone.
Ecco perché tutti abbiamo non solo il diritto, ma addirittura il dovere di confrontarci con l’esperienza di questi uomini; non di ripetere stancamente, ma di proseguire, rivedere, ampliare il senso del loro messaggio e della loro eredità storica. E questo – se necessario – anche contro l’inerzia dei governi e delle istituzioni.
Nel 1989 Borsellino ebbe occasione di affrontare in pubblico il rapporto tra magistratura e politica e lo fece in un tono colloquiale ma non fraintendibile: «Ora, l’equivoco su cui spesso si gioca è questo. Si dice: “Quel politico era vicino a un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con l’organizzazione mafiosa, però la magistratura non l’ha condannato: quindi quel politico è un uomo onesto”. Eh no. Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Vuol dire: beh, ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire: “quest’uomo è mafioso”. PERO’ siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, ALTRI organi, ALTRI poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano già trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi. Che non costituivano reato, ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti, perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza. […] Però c’è il grosso sospetto, che dovrebbe quantomeno indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia. Non soltanto essere onesti; ma APPARIRE onesti, facendo pulizia al loro interno da tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti».
Questo commento, che si adatta con una attualità straordinaria, ad esempio, alla recente assoluzione dell’ex-ministro Romano da imputazioni di mafia, non ha lo scopo di scaricare nella metà campo della politica la palla delle responsabilità: piuttosto ha lo scopo di svegliare l’opinione pubblica. Borsellino qui sta dicendo che la gente, gli intellettuali, i giornalisti, la società civile, la politica, in una parola tutte le forze attive del paese non si devono accontentare di un ruolo passivo di fronte allo svolgimento dei procedimenti giudiziari: al contrario devono assumere un ruolo attivo attraverso la diffusione di un’esigente cultura della legalità e del sospetto che filtri e valuti le vicende che emergono nel corso dell’azione intrapresa dalla magistratura inquirente.
In particolare, anche di fronte ad un’assoluzione possono comunque essere riscontrati:
1. fatti non penalmente rilevanti ma passibili di altro tipo di condanna (sociale, morale, deontologica, ecc.);
2. condotte sospette, opache, inquietanti o comunque non chiarite, che invitano alla diffidenza e a un più prudente distacco da chi le ha messe in essere.
Il primo caso è quello della vicenda giudiziaria di Andreotti, riconosciuto colpevole di partecipazione mafiosa sino al 1980, ma prescritto per decorrenza dei termini. Il senatore a vita non ha fatto un solo giorno di carcere, né gli è stato comminato un solo euro di multa: ma la società civile doveva e poteva reagire molto tempo prima censurando compatta un fatto tanto grave, mettendo in discussione la permanenza di Andreotti in senato, esigendo l’allontanamento dall’ex-presidente del consiglio dalla vita attiva e soprattutto non invitandolo a partecipare a dibatti e talk-show come si fa con qualunque altro rispettabile cittadino.
Il secondo caso esprime un punto di vista ancora più dirompente: per esigere dimissioni o sanzioni in alcuni casi basta un grosso sospetto. Prendiamo il caso di Dell’Utri, altro senatore in forte odore di mafia. Quando si venne a sapere che partecipò alle nozze di un mafioso (Jimmy Fauci) tenutesi a Londra con invitati legati al mondo della malavita e che il diretto interessato aveva spiegato di essersi ritrovato lì in mezzo perché invitato il giorno prima da un amico (Salvatore Cinà, anch’egli mafioso) che aveva incontrato casualmente ad una mostra dei Vichinghi nella capitale inglese, tutto questo sarebbe dovuto bastare per esigere provvedimenti: come minimo le dimissioni dalla carica di senatore in via cautelativa. Non perché non potrebbe darsi la circostanza che Dell’Utri abbia detto la verità: ma perché tale eventualità è troppo labile e il rischio di ritrovarsi un amico dei mafiosi tra i rappresentanti del popolo troppo grosso. Meglio un Dell’Utri che ritorna ad essere un privato cittadino, che correre il rischio di far perdere credibilità all’intero Parlamento.
Invece, proprio perché non si è avuta questa attenzione, oggi la fiducia della gente verso il supremo organo di rappresentanza è ridotta al lumicino. Eppure le parole di Borsellino erano chiare: non basta essere onesti, occorre apparire onesti. Ciò significa che sarebbe necessario rivalutare quella che con termine spregiativo viene chiamata “cultura del sospetto”: non un clima di sfiducia reciproca, ma un’abitudine, costantemente esercitata, a mettere sotto esame le persone a cui sono affidate responsabilità e poteri nell’interesse pubblico. Non si tratta di assumere per principio che tutte le persone debbano essere disoneste: si tratta piuttosto di non farsi prendere in giro.
Per questo Borsellino chiedeva l’aiuto della gente e della società civile, cercando di risvegliare l’attenzione sulla condotta degli amministratori pubblici, ben conscio del fatto che un magistrato lavora più facilmente laddove i cittadini sono più attenti ed esigenti, mentre avanza con difficoltà ed è destinato a non produrre effetti apprezzabili, se il suo operato è percepito come un’intrusione.
Purtroppo, lungi dall’aver messo a frutto questa eredità, l’abbiamo costantemente ignorata. E oggi le mafie possono vantare un fatturato enorme. E le celebrazioni per il ventennale di Via D’Amelio sono affidate ad un Presidente della Repubblica, che mentre i magistrati cercavano la verità sulle stragi, si adoperava per evitare guai a un testimone poi indagato: e quando qualcuno ha chiesto spiegazioni, non solo Napolitano non si è preoccupato di rendere conto all’opinione pubblica del suo operato, ma ha sollevato addirittura un conflitto di attribuzione di fronte alla Consulta per ottenere che nessuno ascolti le sue telefonate. Il contrario esatto di quell’esigenza di trasparenza che Borsellino auspicava. E un pessimo modo per onorarne il sacrifico.
Andrea Giannini
Commento su “Attentato Borsellino, oltre le celebrazioni un’eredità ignorata”