Il contratto con una grossa casa discografica aveva dei vincoli. Occorreva rapportarsi con “figure professionali di mediazione” come il “produttore artistico” che avevano il compito di spingere i creativi verso il consenso di massa
Nelle scorse uscite abbiamo confrontato il rifluire dei movimenti sociali e rivoluzionari degli anni ’70 con l’affievolirsi degli spunti creativi di gruppi e solisti, sottolineando l’emergere di una tendenza: il grosso successo commerciale e di pubblico, riducendo il “progetto artistico” a “prodotto di mercato” come tutti gli altri, tende a eroderne la credibilità, in termini di autenticità espressiva. E questo è quello che accadde dopo i primi anni di slancio del Movimento.
L’allargarsi dei tentacoli delle grosse case discografiche determinò, almeno nelle linee generali, quanto segue:
1) successo internazionale di tutti i gruppi rock, progressive ecc… più significativi, in una scena musicale quasi esclusivamente dominata dalle band anglo-americane, fonte d’ispirazione per migliaia e migliaia di gruppi e musicisti in tutto il mondo. Successo dai riscontri economici, in alcuni casi vertiginosi (partendo dai Beatles e dai Rolling Stones, occorre citare almeno: Pink Floyd, Genesis, Led Zeppelin, Police e altri, ovviamente; considerevoli, anche in ambiti più vicini al jazz, Miles Davis, Keith Jarret, ad esempio).
2) progressivo inquadramento delle produzioni musicali in strategie di mercato, a loro volta animate da strategie promozionali, tramite poderosi uffici-stampa, apparati di merchandising, trovate pubblicitarie, finalizzate alla vendita di un prodotto che, soprattutto in ambito rock, cominciava ad avere costi di realizzazione piuttosto elevati.
3) questo “inquadramento” portò ad uno svilimento della portata creativa dei progetti musicali e, quando non ne fu il principale responsabile, certamente non aiutò la creatività.
È un discorso piuttosto complesso che implica quindi una giusta digressione, al fine di ben comprendere, e forse far cadere, qualche luogo comune un po’ ingenuo. Da un lato, infatti, dobbiamo considerare la relativa caduta d’ispirazione – fatto probabilmente fisiologico – che a volte poteva iniziare a farsi sentire già dopo i primi album (sembrerebbe praticabile una messa in relazione tra il rifluire dei movimenti sociali e l’affievolirsi della spinta creativa di rottura sul piano dei linguaggi espressivi. Ne parleremo…), da un altro lato non dobbiamo pensare che i musicisti e i gruppi di quel periodo fossero dei martiri pronti ad immolarsi sull’altare della purezza musicale, almeno non tutti. Certo, tenevano all’originalità dei loro progetti, ma la possibilità di avere un buon contratto con un’importante casa discografica (e con l’indotto che questo avrebbe comportato: stampa, tournèe, nuove registrazioni, popolarità, royalties ecc…), magari dopo anni di prove in cantina… insomma, se uno fa il musicista di professione si augura di poter vivere con la propria musica, no?
Ma il contratto con una grossa casa discografica, come dire… aveva dei vincoli. Nel senso che quasi sempre occorreva rapportarsi con “figure professionali di mediazione” come il “produttore artistico” e/o il “produttore esecutivo”. Spesso queste figure, appartenenti allo staff della casa discografica, seguivano il gruppo molto da vicino, spingendo nella direzione di accontentare i gusti di un pubblico più vasto, rispondendo quindi a “ciò che vuole la gente” (quante volte ho sentito questa frase…). Se il gruppo aveva un forte potere contrattuale, oppure, semplicemente si aveva la certezza di un certo riscontro di vendite, queste spinte potevano esercitare un’influenza solo marginale; in altri casi, invece i produttori artistici e le case discografiche potevano intervenire pesantemente, avendo sempre come obbiettivo la realizzazione di un prodotto il più vendibile possibile.
Va comunque ribadito che non è vero che tutti i produttori artistici o esecutivi delle case discografiche non capivano (o non capiscono) nulla. Questo mi sembra, francamente, un atteggiamento contrappositivo un po’ sterile. Certo, molti sono incompetenti, altri rimangono vittime della logica spicciola del mercato, ma esistono (ed esistevano) anche produttori seri e competenti. Ed è ovvio che nel dire questo, mi baso sulla mia modesta esperienza personale, svoltasi in Italia, ma non credo che in Inghilterra e in America fosse (sia tuttora) molto diverso. Parallelamente a tutto questo, rivendicando un modo diverso di fare discografia, più rispettoso dell’autonomia creativa di ogni singolo artista, nacquero delle nuove etichette, spesso fondate da musicisti. Basti pensare alla Island e alla Vertigo, etichette inizialmente piccole che misero sotto contratto gruppi come i King Crimson, Emerson Lake & Palmer, Jethro Tull, Jentle Jiant, Traffic e altri, ovviamente.
Gianni Martini
[foto di Claudia Baghino]