Internet può restare un ottimo strumento per monitorare la trasparenza dei rappresentanti, ma non potrà mai teleguidarli. Inoltre, un conto è dire che questi partiti sono compromessi, un conto è sostenere che è l'idea di partito in sé ad essere sbagliata...
Di Grillo avevo scritto già all’inizio di maggio, sottolineando come la forza e nello stesso tempo la contraddizione del suo Movimento 5 Stelle (M5S) fosse quella di avere per leader un comico che non corre per nessuna carica politica: è una forza perché da a Grillo la possibilità di continuare a fare quelle battute che gli riescono così bene, di esercitare con successo il ruolo di “rompighiaccio” e contemporaneamente di essere percepito come estraneo agli interessi della casta; è una contraddizione perché gli attivisti, allorché eletti a una qualsiasi posizione di rappresentanza, acquistano inevitabilmente autonomia decisionale, e quindi diventa difficile poterli richiamare all’ordine stando al di fuori di un qualsiasi ruolo istituzionale o politico. Questa analisi mi pare confermata dai fatti: da Giovanni Favia a Federica Salsi, quello a cui stiamo assistendo non è altro che il fisiologico emergere dall’interno del movimento di personalità più o meno carismatiche.
BEPPE GRILLO, IL “DITTATORE”
Ovvio che la grande stampa sia interessata solo a propagandare “The dark side of Beppe Grillo”, “il lato oscuro della forza”; perché bisogna a tutti i costi spaventare l’elettorato moderato spiegando loro che votare il M5S porterà le camicie nere su Roma. Eppure, checché se ne dica, il problema di Grillo non è la “democrazia interna”. Anzi, un’organizzazione politica che voglia restare coerente rispetto ai principi attorno ai quali cerca il consenso degli elettori, anche a costo di espellere gli indisciplinati, è una buona cosa. Certo, il M5S è una forza giovane: e in questi casi è normale che il processo di strutturazione passi attraverso una dialettica anche aspra tra il gruppo fondatore ed ispiratore, da una parte, e le persone che vi si accostano con intenzioni anche molto diverse fra loro, dall’altra. Ma ciò non basta per affermare che il problema del M5S sia il decisionismo o il protagonismo del suo massimo rappresentante. Al contrario, le difficoltà che stanno emergendo dipendono piuttosto da un programma che è troppo radicalmente democratico.
Su questa espressione bisogna intendersi bene. Ho già scritto più e più volte che il merito maggiore di Grillo è proprio quello di esortare il cittadino a riprendersi la vita civile, ad interpretare un ruolo attivo nella società, a smettere di fare “il guardone della politica”, sottraendo così il processo decisionale tanto al paternalismo del ceto dirigente di sinistra (per cui il popolo è, in fin dei conti, minorato) quanto al “ghe pensi mi! voi godetevi la vita” di berlusconiana memoria. Quindi non posso che vedere con favore qualsiasi progetto politico che voglia interpretare il termine “democrazia” secondo il suo significato corrente. Ciò non significa, però, che l’esercizio della democrazia sia un processo scontato. In particolare è difficile che si possa rinunciare alla democrazia rappresentativa in favore della democrazia diretta semplicemente perché “ora c’è la rete”.
BEPPE GRILLO E LA RETE
Grillo suppone un più stretto contatto tra elettori ed eletti attraverso l’uso delle nuove tecnologie, tale per cui diventa improvvisamente inutile un ceto di dirigenti di partito e, più in generale, la rappresentanza basata sulla leadership e sul carisma personale del singolo uomo politico. Il buon amministratore, infatti, si limiterà ad eseguire periodicamente gli ordini che gli arrivano dalla base, a sua volta organizzata per via telematica. Segue come corollario che non ci sarà più bisogno di un manifesto programmatico inteso classicamente, come insieme di valori che possano collocare il partito in un’ideologia più o meno di destra o di sinistra. Ne esce compromesso anche il ruolo dell’informazione, che perde completamente la sua funzione autonoma di controllo tra chi delega il potere e chi è delegato. In questo quadro c’è tutto: la spiegazione della degenerazione partitocratica, le ragioni della crisi economica (come prodotto di un sistema di potere corrotto), la promessa di un nuovo assetto politico (immune dai problemi del precedente), l’importanza delle nuove tecnologie digitali e – last but not least – un ruolo di primo piano, unico ed irripetibile, per il padre fondatore di questa meravigliosa architettura sociale.
Tutto molto bello. Peccato solo che non stia in piedi…
I commentatori politici appaiono come ipnotizzati vuoi dalla paura, vuoi dal fascino che esercita la novità di Grillo e del suo M5S. Pochi si sono avventurati in una critica che ne prenda seriamente in esame i presupposti. Ma l’idea che i benefici di internet possano sovvertire le normali dinamiche di una democrazia rappresentativa come l’Italia, se certo non è pericolosa, è comunque piuttosto ingenua.
Grillo e il suo socio Caseleggio hanno certo avuto il merito di capire che la rete è un potentissimo veicolo di circolazione di idee e informazioni, oltre che un mezzo per democratizzare questo processo, sottraendolo all’oligopolio televisivo. Inoltre, può essere un eccellente strumento di controllo su l’operato di chi viene eletto. Eppure la rete da sola non basta per far stare in piedi un movimento senza un gruppo dirigente.
BEPPE GRILLO E I PARTITI
Che ci si creda o no, infatti, le strutture che i partiti si erano dati avevano all’origine una loro ragione d’essere: e questa ragione non aveva niente a che vedere né con lo sperpero di denaro pubblico, né con l’arricchimento personale. I congressi, i dirigenti e i leader servivano (e dovrebbero servire ancora oggi) a risolvere il problema della rappresentanza degli iscritti nel modo più congeniale possibile; un modo che non è mai stato né sarà mai quello di fare la somma algebrica delle singole posizioni. Al contrario, in un partito (come qualsiasi altro organismo democratico di dimensioni ragguardevoli) occorrerà sempre una minoranza che sia incaricata dalla maggioranza di gestire gli affari di tutti. E il rapporto non sarà mai completamente subalterno, nel senso di una minoranza unicamente interprete della volontà della maggioranza, ma proverà anche all’occorrenza a guidarla, a imprimerle una direzione, anche attraverso l’azione di personalità dotate di particolare carisma: purché, s’intende, emergano dal basso attraverso un processo di selezione, e non vengano calate dall’alto in quanto espressione di forti interessi particolari.
Si, lo so: sono i tempi del post-berlusconismo e della Casta, e certi discorsi risultano indigesti. Ma questa non è una buona ragione per buttare via il bambino con l’acqua sporca. Anzi, dobbiamo stare molto attenti, perché è proprio in momenti come questi, in cui appare chiaro che si deve cambiare, che si rischia anche di fare dei danni. Negli anni ’90, dopo essersi scottata con Tangentopoli, l’opinione pubblica in gran parte si bevve la favola delle privatizzazioni con la scusa della maggiore efficienza dei servizi (perché nel pubblico – recita una vulgata in voga ancora oggi – la corruzione si annida per definizione): poi è andata come è andata, e oggi nessuno pensa più che privatizzare sia la ricetta magica.
Allo stesso modo, un conto è dire che questi partiti sono tutti compromessi, che i vecchi leader sono al potere da troppo tempo e che abbiamo sbagliato ad assuefarci al culto della personalità politica; un altro conto sarebbe sostenere che è l’idea di partito in sé ad essere sbagliata. In realtà non sono stati solo i partiti a subire un processo di degenerazione, ma tutto il sistema nel suo insieme: dall’istruzione all’informazione, dal sistema legale alla finanza. Inoltre ci sono paesi dove i partiti funzionano benissimo. Insomma, che esigenza c’è di sperimentare sulla nostra pelle un estremo che sappiamo benissimo essere sbagliato, solo perché ci siamo già scottati con l’estremo opposto?
Il fatto che per anni ci siamo preoccupati poco della qualità di chi ci governava, non significa che ora non dobbiamo più farci rappresentare da nessuno: significa solo che dobbiamo selezionare e controllare meglio.
PERCHÈ LA DEMOCRAZIA DIRETTA SUL WEB “NON FUNZIONA”…
La democrazia diretta “telematica” non funziona non perché il popolo non abbia la capacità necessaria per gestire direttamente la cosa pubblica (ripeto: diffidate da chi vi dice il contrario, perché vuole fregarvi), ma per due motivi estremamente pratici: il primo è che governare richiede tempo, e la maggior parte della gente non ne ha; il secondo è che l’Italia non è l’Atene del V secolo a.C.: è molto più grande.
E’ vero che la rete riduce le distanze fisiche e temporali, ma se fosse in grado di azzerarle, perché su molti importanti punti, soprattutto di respiro nazionale, ancora non si conosce quale sia l’orientamento del M5S? Eppure ne è passato di tempo da quando i sondaggi hanno accreditato la creatura di Grillo come la seconda forza del paese. La realtà, allora, è che fare politica su internet è si un processo interessante e innovativo, ma che non esclude una lunga dialettica. E questa non è una colpa del mezzo, ma è un merito delle persone, che per fortuna devono ancora informarsi, valutare, discutere, argomentare e trovare un compromesso prima di prendere una decisione comune. A maggior ragione un simile procedimento non sarebbe concepibile nel day by day di un normale governo. Un domani potrebbe scoppiare una guerra, crollare l’euro, o più semplicemente chiudere una piccola fabbrica che manda a casa una ventina di dipendenti: un eventuale governo “a 5 Stelle” cosa farebbe? Si connetterebbe su internet per sentire cosa ne pensano gli internauti? Ovviamente non sarebbe possibile, perché sarebbero necessarie decisioni rapide.
Questo dimostra che avere un rigido ricambio, spersonalizzare la politica e chiedere coerenza rispetto ad un programma proposto sono tutte cose giuste e desiderabili; e tuttavia non escludono una certa sfera di autonomia per un dato gruppo dirigente, per quanto serrato il controllo e per quanto ristretto il mandato.
L’utopia di Grillo, insomma, non è praticabile. Internet può restare un ottimo strumento per monitorare la trasparenza dei rappresentanti, ma non potrà mai teleguidarli. Resta la necessità di guardare benevolmente al riorganizzarsi spontaneo della società civile, che cerca di riprendersi uno spazio che le era stato a poco a poco sottratto. Tanto più che non c’è nulla da temere da questi esperimenti: anzi, se l’analisi è corretta, l’evoluzione da movimento a partito sarà inevitabile, oppure quella che adesso è una novità presto o tardi finirà per avvitarsi fatalmente su se stessa.
Andrea Giannini
Commento su “Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle: l’analisi politica”