Addio Berlusconi: la fine dei problemi? Solo chi non vuole vedere in faccia la realtà può illudersi che le larghe intese siano qualcosa di più di un respiratore per tenere in vita una classe politica morente
Forza Italia è fuori dal governo. Berlusconi decade. E la maggioranza si assottiglia sempre più: il voto di fiducia sulla legge di stabilità passa al senato con soli 171 voti, rispetto ai 154 che rappresentano la soglia sotto la quale il banco salta. Insomma, niente di nuovo. E’ solo la lunga agonia di un governo destinato fatalmente a cadere senza aver concluso nulla, e che proprio per questo non aveva senso sin dal principio.
Se si esclude qualche colpo di scena, infatti, stiamo semplicemente assistendo ad una trama già scritta, abbozzata il giorno delle elezioni e poi completata il giorno della riconferma di Napolitano. Solo chi non vuole vedere in faccia la realtà può illudersi che le larghe intese siano qualcosa di più di un respiratore per tenere in vita una classe politica morente. Chi invece non si accontenta dell’informazione mainstream e dei suoi slogan banali e incoerenti è perfettamente in grado, con un minimo di obiettività, di capire cosa sta succedendo.
C’è una crisi economica che avrebbe bisogno di una banale verità economica: il cambio flessibile è «il peggior regime di cambio, esclusi tutti gli altri» (la citazione, ricalcata sul noto aforisma di Winston Churchill, è di James Meade, premio nobel per l’economia nel 1977). Di contro il cambio fisso serve solo a scaricare il peso degli aggiustamenti sui salari (lo ammettono placidamente anche Fassina e Cuperlo). Presunti effetti positivi: non pervenuti. E non serve essere grandi esperti per capirlo: basta registrare le dichiarazioni del capo economista al Fondo Monetario Internazionale, Olivier Blanchard, che ha recentemente riconosciuto l’utilità del cambio flessibile e rigettato i tradizionali argomenti contrari perché «molto meno rilevanti di quanto non lo siano stati nelle crisi precedenti». C’è poco da fare: le prove in questo senso sono – come direbbe Paul Krugman – “overwhelming”, ossia schiaccianti.
Nel mondo politico, tuttavia, ancora nessuna forza di peso è disponibile a prendere atto di questa situazione: non è disponibile il PD che ha sempre rivendicato l’entrata nell’euro come un successo personale; non lo è il PDL (o quello che ne è avanzato) per il quale la precedenza spetta ai problemi giudiziari del capo; e, nonostante le apparenze, non lo è nemmeno il M5S che (a differenza del Front National in Francia) ha paura ad assumersi la responsabilità politica delle critiche che rivolge all’Europa.
Pertanto, in mancanza di una seria autocritica, l’idea di una coalizione tra la vecchia destra e la vecchia sinistra sotto il patrocinio del vecchio Presidente della Repubblica era intrinsecamente fallimentare. Si pretendeva di mettere insieme, infatti, forze che, dopo un anno e cinque mesi di convivenza dentro il governo tecnico, si ritrovavano senza una straccio di strategia contro la crisi, unite unicamente dal comune desiderio di preservare l’assetto esistente. Questa linea conservatrice conduce a predicare la stabilità come unico valore: e inevitabilmente costringe il governo a distinguersi soprattutto per le decisioni non prese e i duri compromessi digeriti pur di tenere in piedi la maggioranza.
Ma nel frattempo il vero nodo della crisi continua ad essere ignorato. Così la ripresa non arriva e le tensioni dentro al governo aumentano: e mano a mano che appare chiaro che i partiti non stanno portando a casa risultati utili, ha sempre meno senso tenere a freno gli elettori delusi o soprassedere su questioni scottanti come la decadenza di Berlusconi. Presto o tardi, dunque, le contraddizioni esploderanno, segnando la fine del governo Letta.
Andrea Giannini