Fra dichiarazioni di facciata e gli applausi di convenienza, il gesto di debolezza di Joseph Ratzinger che passa il testimone per non consegnarsi ad una curia di cui evidentemente non si fida e di cui teme le oscure trame
In attesa che abbia fine una campagna elettorale di cui non sentiremo certo la mancanza, un commento lo merita la clamorosa abdicazione di Joseph Ratzinger. La portata dell’evento è già stata ampiamente sottolineata dalla stampa di tutto il mondo: non solo, infatti, l’ultimo precedente risale a 600 anni fa, ma soprattutto la Chiesa si trova in un momento difficilissimo della sua storia.
Da Papa Giovanni Paolo II a Benedetto XVI il delicato rapporto tra una dottrina millenaria e le sfide poste dalla modernità è ancora lontano dall’essere definito. Per di più mai come in questi ultimi anni è emerso al pubblico il torbido lavorio che si agita segretamente fra le gerarchie ecclesiastiche: dall’opacità nella gestione dello denunce dei preti pedofili, fino alle più recenti polemiche sulla trasparenza dello IOR e sulla guerra intestina per bande documentata dalla ormai celebre inchiesta giornalistica detta “Vatileaks“.
E’ ovvio che in un momento del genere il gesto di Benedetto XVI rischi di essere letto, al di là delle dichiarazioni di facciata e del plauso generale di convenienza, come un’ammissione di debolezza della Chiesa. Il paragone con i precedenti storici non fa che confermare questa valutazione: di Celestino V (1294) tutti ricordano la “viltade”, secondo il giudizio sferzante di Dante (che Ratzinger tuttavia non condivideva assolutamente); e a proposito di Gregorio XII (1415) bisogna rammentare che l’abdicazione servì a chiudere, con il concilio di Costanza, uno dei periodi più bui per la Chiesa, seguito al ritorno a Roma del Papato dopo la “cattività avignonese” (1309-1377): un gioco di potere combattuto a colpi di nomine di Papi e di antipapi e denominato evocativamente “Scisma d’Occidente” (1378-1417).
Questa consapevolezza non può essere mancata a Joseph Ratzinger. L’ormai ex-Pontefice, che già da qualche anno – oggi retrospettivamente non si può dubitarne – andava meditando il coup de theatre e preparandosi la strada, non poteva non sapere che una scelta del genere, anche se formalmente legittima, si sarebbe trasformata in un duro colpo per l’immagine di compattezza della Chiesa. C’è infatti il Pastor Aeternus, cioè il dogma dell’infallibilità del Papa (quando parla ex cathedra) sancito nel 1870. Da allora è la prima volta che un Papa mette in imbarazzo a tal punto la dottrina: rinunciando al pastorale, infatti, Joseph Ratzinger rinuncia anche, per una decisione del tutto personale (in cui cioè Dio non ha evidentemente alcun ruolo), alla missione di portavoce del volere divino. Ma chi è designato da Dio ad esprimersi nel Suo nome, come fa a decidere da solo che, da un certo punto in avanti, la cosa non gli interessa più?
Le gerarchie ecclesiastiche potranno anche prodursi in ardite gimcane teologiche per giustificare la cosa, ma è evidente che da oggi, se anche il Papa può ritirarsi, sarà un po’ più difficile spiegare perché, ad esempio, l’uso del preservativo non sia consentito. C’è, insomma, il concreto rischio che tutto l’impianto dottrinale perda credibilità. Difficile pensare, quindi, che un fine teologo e un devoto prelato come Joseph Ratzinger abbia potuto abbandonare la sua Chiesa, del tutto impreparata alle conseguenze di un simile gesto, solo per imprimere una svolta di “modernità”, come vorrebbero gli entusiasti commentatori e intellettuali più liberal di sinistra. L’unica spiegazione, in realtà, è che Benedetto XVI abbia voluto attendere il primo momento di calma relativa per passare il testimone ad un nuovo e più “vigoroso” successore, in modo da non consegnarsi, nella debolezza incipiente della vecchiaia, ad una curia di cui evidentemente non si fida e di cui teme le oscure trame.
In quest’ottica il gesto di Ratzinger assume una senso rispetto alla sua coscienza di religioso (che altrimenti ne uscirebbe compromessa): quello di una denuncia estrema e clamorosa per il bene superiore della comunità di fedeli che stava guidando. Segue come corollario che, se in effetti “c’è del marcio in Danimarca”, allora l’opera di inchiesta giornalistica non stava denigrando la Chiesa, ma Le stava rendendo un buon servizio. Quei giornalisti, come Gianluigi Nuzzi o Marco Lillo, che avevano doverosamente pubblicato le notizie di cui entravano in possesso, stavano solo facendo scrupolosamente il loro lavoro: e dovrebbero essere tenuti in buona considerazione per questo, anziché osteggiati come è spesso avvenuto. All’opposto certi politici sedicenti “cattolici”, sempre pronti a spellarsi le mani qualsiasi cosa venga dal Vaticano, hanno dimostrato una volta di più di che pasta sono fatti: al contrario di quello che diceva Montanelli di De Gasperi, cioè che fosse cattolico ma non clericale, questi si sono rivelati più clericali persino del Papa e, in ultima analisi, dei pessimi cattolici.
Andrea Giannini