Giusto condannare la violenza quando a perpetrarla sono sovversivi con in mente un obiettivo specifico: era il caso, ad esempio, delle Brigate Rosse. Ma la violenza a cui stiamo assistendo oggi non è premeditata, è solo disperazione
Improvvisamente l’opinione pubblica si è ricordata che la crisi è violenza. Non che occorresse un grande acume per vedere i fallimenti, la disoccupazione e l’incertezza economica che ogni giorno spingono al suicidio qualche anonimo disperato; ma tant’è si è dovuto attendere che volassero i proiettili. Ora che però il dato è registrato, ciò non basta alla collettività per abbozzare una reazione libera finalmente dal teatrino ipocrita della “condanna alla violenza”. Anziché avviare una discussione sulle cause di questa violenza, continuiamo ad avvitarci nel nostro solito sterile perbenismo: “non si deve giustificare”, “non si possono fornire alibi”, “non si devono lasciare aperti spiragli”, eccetera.
Contro questo atteggiamento ripetitivo, inutile e fastidioso mi ero già espresso addirittura nel primo articolo di questa rubrica, scritto in occasione della morte di Gheddafi: allora avevo cercato di mostrare quanto fosse, se non discutibile da un punto di vista morale, di sicuro incoerente da un punto di vista logico l’atteggiamento di un occidente che si lanciava a capofitto nella guerra civile libica, salvo poi condannare selettivamente le atrocità “scomode” agli occhi della propria opinione pubblica.
Si trattava di una critica che non eludeva il problema della “morale”, ma lo definiva, anzi, segnandone la distanza dal “moralismo”: la morale, infatti, ha un valore senza dubbio generale; il moralismo, invece, si applica solo in particolare la dove ci interessa. Ed è proprio questo il caso della situazione in cui ci troviamo. Io non ho alcuna difficoltà a dire che la condanna della violenza di cui tutti si riempono la bocca in questi giorni è solo volgare moralismo. E il motivo di questo giudizio così netto è che la violenza a cui stiamo assistendo non è premeditata: è solo disperazione.
Dalla disperazione la gente avrebbe bisogno di essere salvata, non additata da una riprovazione collettiva che sa tanto di auto-assoluzione. Ha senza dubbio un senso condannare la violenza quando a perpetrarla sono sovversivi con in mente un obiettivo specifico: era il caso, ad esempio, delle Brigate Rosse, che perseguivano un fine rivoluzionare attraverso l’uso della violenza. Dire, soprattutto da sinistra, che si trattava di gesti insensati e dalle conseguenze tragiche non era affatto inutile: serviva a isolare politicamente i violenti, a togliere loro il sostegno, a rendere evidente l’impossibilità che le masse venissero alla fine attirate lungo il solco di una strada solitaria fatta di sangue. Ma oggi questo rischio non c’è. Stando almeno alle ricostruzioni che ci vengono fornite, oggi non abbiamo di fronte atti di violenza commessi in nome di chissà quale logica distorta.
Non c’è nessun partito o movimento che predichi azioni violente: ci sono invece gesti di individui per cui il senso della vita è in discussione, la ragione si spegne e a dettare la linea è la disperazione. In questi casi, allora, le parole diventano del tutto inutili. A chi può passare per la testa che un aspirante suicida, preda del fallimento personale e di un dramma umano che chi non vive può a stento immaginare, possa recedere dal suo proposito per il ditino alzato di quel politico o per il biasimo di quell’altro giornalista? E difatti non esistono leggi contro il suicida, perché – banalmente – i morti non si possono mettere in carcere.
Per brutto che ci possa sembrare il gesto, una volta compiuto cessa automaticamente di costituire materia di competenza umana e passa di diritto in mano al buon Dio (almeno per chi è credente). All’uomo resta solo il compito di interrogarsi e di agire sulle cause in modo da evitare che in futuro qualcun altro possa essere intenzionato a ripetere un simile atto estremo, magari coinvolgendo ignari ed innocenti passanti. Se invece che occuparci di questo, preferiamo andare a fare la morale ai disperati, allora significa semplicemente che ci illudiamo che il problema si possa risolvere attribuendone in qualche modo la responsabilità agli individui.
Ecco perché “condannare la violenza” in questi casi non è solo inutile: è anche dannoso e ipocrita. Si dovrebbe parlare invece di “prevenire un ricorso insensato alla violenza”. Ma se lo si facesse, si eviterebbe il moralismo. E quindi si ammetterebbe che la crisi, nel modo in cui è gestita, è già da lungo tempo violenta: quando scarica sulla disoccupazione i costi del recupero dei margini di produttività perduti; quando predica un brutale darwinismo socio-economico; quando colpevolizza i lavoratori italiani per gli errori di una finanza senza controlli e regole. Quelli che stanno in fondo e che hanno subito gli effetti collaterali di tutto questo non è che non sappiano che la violenza è inutile e controproducente: il problema è che, perso il lavoro e persa la propria dignità, tendono più facilmente a dimenticarselo.
Andrea Giannini