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Le cose sarebbero andate diversamente se ad esempio in tema di fisco e legalità fosse stata messa la stessa energia con cui oggi si pretendono vincoli di bilancio che deprimono l'economia
Si fa presto a parlare di unità politica dell’Europa. Monti ha dichiarato addirittura che sarebbe questa la soluzione di cui abbiamo bisogno. E non ha tutti i torti. Ma, ad essere onesti, chi ci crede più? La Grecia ha votato una maggioranza pro-euro, ma i mercati non si sono lasciati impressionare; la Spagna è quasi definitivamente fuori dall’accesso al credito, con i bonos a dieci anni che hanno ormai superato la soglia psicologica di non ritorno del 7%; l’Italia rischia di seguire a ruota e la Germania, sola contro tutti, non pare arretrare di un millimetro. In questa delicatissima fase, c’è qualcuno disposto a pensare che un progetto di maggiore coesione politica possa salvare l’Europa tirandoci fuori dalla crisi? Non scherziamo.
La ricetta magica (se mai ne esiste una) si chiama “condivisione europea del debito” e passa obbligatoriamente per un “si” della Germania ai famigerati Eurobond (cioè i titoli di debito europei la cui solvibilità sarebbe garantita da tutti i paesi dell’UE). Si parla anche di unione bancaria, di un bilancio comune, di un nuovo ruolo per la BCE: tutte cose che – chissà – potrebbero sortire effetti anche positivi, soprattutto se si riuscisse a schiodare la Banca Centrale Europea dal suo mandato ufficiale, che è semplicemente quello di contenere l’inflazione, per farla diventare davvero una “banca centrale” come tutte le altre.
In ogni caso più o meno questo è quello che ci si aspetta per dare una scossa al malato prima che passi a miglior vita. L’unione politica dell’Europa, invece, potrebbe venire soltanto con molto tempo a disposizione: tempo che non c’è. L’idea sembra quindi sconclusionata. Sempre che – e a questo bisogna stare bene attenti – per “unione politica” s’intenda, appunto, un’unione politica; e non invece una serie di vincoli e intromissioni sui bilanci nazionali da parte di un gruppo di euro-burocrati. Meglio chiarirsi bene le idee: una gestione “politica”, qualunque cosa significhi, non può essere nulla che prescinda, in democrazia, da un voto o un mandato popolare. Se invece la Germania ottenesse di sottoporre a un rigido controllo i conti degli Stati in difficoltà, questa si dovrebbe chiamare piuttosto “cessione di parte della sovranità nazionale”: una scelta delle classi dirigenti europee che toglierebbe autonomia alle politiche nazionali senza che nessun cittadino fosse chiamato ad esprimersi in merito.
Pertanto, purtroppo, o Monti dice “unione politica” pensando così di tendere una mano alla Germania in cambio di un impegno tedesco sul problema del debito, oppure confonde il problema con la soluzione. Allo stato attuale, infatti, siamo costretti a constatare, a volere essere realisti, che è l’assoluta mancanza di un’unità di intenti e di un progetto politico comune ad affossare l’Europa, piuttosto che auspicare, con molto idealismo, che un’improbabile unità politica ci salvi.
Mi spiego meglio. Uno dei più importanti argomenti della vita politica di un paese è la questione fiscale: vale a dire, chi paga e quanto per le spese dello Stato. Si tratta di una questione centrale anche nell’attuale crisi europea: i Tedeschi non sono contenti di come i Greci hanno gestito e gestiscono il loro sistema di tassazione; e l’Unione Europea recentemente ha bacchettato persino Monti per aver fatto troppo poco contro l’evasione. Il perché di queste attenzioni è evidente: se un paese dell’Unione è in difficoltà e deve chiedere ad altri paesi membri di intervenire, è normale che questi stessi paesi pretendano, come minimo, che chi chiede aiuto faccia pagare prima le tasse ai propri cittadini. Se si sta insieme, ci vogliono condizioni uguali: se no si favoriscono alcuni e si sfavoriscono altri.
Ora, come si fa a mettere d’accordo l’Irlanda, che tassa tuttora le imprese ad un’aliquota che si aggira attorno al 12%, con la Grecia che non tassa gli armatori e con l’Inghilterra che, giustamente, non vede di buon occhio una tassazione sulle transazioni finanziarie, dato che il paese si basa su una fiorente industria finanziaria? In nome di cosa dovremmo chiedere ad uno Stato di rinunciare a una cosa importante come la propria politica fiscale (tanto più gli Inglesi, che ne discutono dal 1215)? Ma c’è un altro problema più grosso. Lo Stato, una volta che ha raccolto le tasse, le redistribuisce. E redistribuire significa sostanzialmente togliere a chi ha di più per dare a chi ha di meno. E’ il problema dell’allocazione delle risorse, la cui finalità è quella di rendere omogeneo il paese riequilibrando gli scompensi che ci possono essere, ad esempio, tra ricchi e poveri, tra città e campagna, tra settentrione e meridione, eccetera. Si tratta di un’operazione non scontata che può imbattersi in parecchie difficoltà politiche. Ad esempio, è illuminante il caso italiano della “questione settentrionale”, che è stata il cavallo di battaglia dalla Lega: perché il Nord efficiente deve pagare per il Sud sprecone? Questa, a bene vedere, è esattamente la stessa domanda che si stanno ponendo i Tedeschi in Europa.
In generale ci si chiede perché una parte più virtuosa debba cedere sue risorse ad un altra parte meno organizzata. Ma il solo fatto di porsi questa domanda, significa già esprimere un’insofferenza di fondo: significa mettere in discussione l’interesse collettivo per affermare un interesse parziale, rendendo così evidente che una visione unitaria sta franando o è già franata. Quindi il fatto che la Germania non voglia pagare l’inflazione per risolvere problemi che in effetti non ha creato lei, testimonia che non pensa a mantenere in vita quel sogno europeo che pure era la missione storica tedesca. E il discorso vale anche per gli altri Stati europei, che non hanno mostrato maggiore lungimiranza: per tutti la pratica è stata l’affermazione dell’interesse particolare a scapito dei grandi progetti ideali.
Se fosse stata messa la stessa energia con cui oggi si pretendono vincoli di bilancio che deprimono l’economia anche nel pretendere norme severe contro la corruzione, le mafie e la grande evasione fiscale, che pure hanno scavato la fossa, ad esempio, del debito pubblico italiano, chissà come sarebbero andate le cose. Forse sarebbe stata considerata un’indebita ingerenza politica; o forse un quadro normativo comune di questo tipo si sarebbe potuto facilmente approvare direttamente con il voto dai cittadini europei. Almeno in Italia, c’era molta fiducia nelle istituzioni europee: e in queste materie gli Italiani avrebbero delegato più volentieri che ai loro stessi politici. Sarebbe stato un passo importante verso gli Stati Uniti d’Europa, che invece oggi restano un’utopia. Forse se ne riparlerà: sempre che, tra qualche mese, esista ancora l’Europa.
Andrea Giannini
Commento su “Stati Uniti d’Europa: la grande utopia dell’unione politica europea”