Basta un accerchiamento politico per giustificare l'attacco alla leadership del Cavaliere? La politica è espressione di interessi e il blocco che sosteneva Berlusconi si è staccato. Eppure non è detto che sia giunta la sua fine politica
E’ davvero la fine di Berlusconi e del berlusconismo? Per rispondere a questa domanda occorre ripercorrere il percorso tortuoso che ha portato il Cavaliere a smentirsi e rismentirsi, fino a capitolare sul tragicomico voto di fiducia a Letta. Diciamo subito che quello che è realmente successo nelle segrete stanze delle politica e nelle menti dei protagonisti di questo psicodramma non si può ovviamente sapere: ma ciò non toglie che si possano fare delle ipotesi anche piuttosto realistiche.
Innanzitutto pare che la sollevazione interna al PDL ci sia stata davvero, e che sia stata talmente ampia da imporsi, per una volta, sul volere dello stesso Berlusconi. Questo fatto inedito (sul quale francamente non avrei scommesso) comporta un clamoroso ridimensionamento della leadership arcoriana: il Cavaliere non ha più il controllo assoluto. In termini meramente elettorali si tratta di una mossa controproducente per tutto il partito, giustificata dal “senso di responsabilità” e dal “bene del paese”: ma esistono spiegazioni più soddisfacenti.
Il colpo di testa di Berlusconi, col ritiro dei ministri e la minaccia concreta di far cadere il governo, rischiava di produrre (e stava già producendo) un risultato potenzialmente letale per il centro-destra: mettersi contro un fronte di opposizione compatto e impenetrabile.
Nel passato molti dei successi politici di Berlusconi sono dipesi dalla sua capacità di trovare sponde tra le fila avversarie: da D’Alema a Violante, sono tanti i nomi dei supposti “nemici” del Cavaliere che nella pratica hanno spesso contribuito a salvarlo. Questa volta però, se il governo fosse caduto sancendo la fine delle larghe intese e sconfessando la linea del Presidente della Repubblica, lo smacco per il PD sarebbe stato troppo grande, col rischio elevatissimo che i democrats finissero per fare causa comune col fronte degli anti-berlusconiani duri e puri (cioè quel vasto movimento di opinione che va dal Fatto Quotidiano al M5S): una prospettiva pericolosissima e senza precedenti, oggettivamente non paragonabile né al contesto che portò alla rimonta su Prodi del 2006, né a quello in cui maturò l’ottimo 22% dell’aprile scorso.
Resta il fatto, però, che finora Berlusconi aveva sempre, se non vinto, almeno pareggiato le sue scommesse elettorali; per cui, c’è da chiedersi: basta davvero una situazione di accerchiamento politico per giustificare questo attacco alla leadership del Cavaliere, cioè l’unica cosa che aveva garantito voti e poltrone e che per questo era stata seguita fino all’altro ieri con cieca obbedienza?
In realtà ci stiamo perdendo un pezzo importante del quadro. La politica non è un gioco a sé stante: è espressione di interessi. E quali siano gli interessi in discussione è presto detto. Fatevi questa semplice domanda: fuori dagli schieramenti politici, nell’opinione pubblica nazionale, chi ha espresso un parere non voglio dire “positivo”, ma per lo meno “non catastrofico” a fronte di una eventuale caduta del governo? A parte quelli a libro a paga di Berlusconi (per ovvie ragioni), e a parte pochi commentatori indipendenti (come il sottoscritto), la risposta è facile: nessuno.
Può sempre essere che, se il governo Letta fosse caduto, gli esiti sarebbero stati davvero catastrofici. lo non lo credo affatto: e per questo ho tentato, quantomeno, di opporre un discorso di buon senso a quella che ritengo essere stata una vera e propria campagna di terrorismo mediatico. Ma anche se mi sbaglio, rimane il fatto che, considerato lo stato dell’informazione in Italia, se ci fosse stato qualcuno di potente ed influente che avesse avuto da guadagnarci da una caduta del governo, non c’è dubbio che il suo parere si sarebbe sentito: avrebbe trovato facilmente un trombettiere pronto a fargli da megafono. Al contrario, il fatto che nessuno si sia espresso in modo diverso ci autorizza a concludere che i principali blocchi di potere nell’attuale establishment siano compatti nel sostenere il governo Letta.
Ripeto il ragionamento per chi fa finta di non capire. Se ci fossero stati grandi gruppi industriali, banche, centri finanziari, partner in Europa o oltre l’Atlantico che avessero visto favorevolmente nuove elezioni, avrebbero avuto sicuramente mezzi e occasioni per intervenire fuori dal coro nel dibattito scatenatosi sulle conseguenze della crisi politica. Se ciò non è avvenuto, allora bisogna concludere che si è verificata un’assoluta convergenza di interessi da parte di tutte le principali forze che cercano di influenzare l’opinione pubblica, data dal fatto che nessuno voleva ritrovarsi a che fare con un paese senza interlocutori politici “affidabili” (leggi: con i quali contrattare leggi favorevoli) e senza possibili soluzioni di compromesso in vista.
La rappresentazione unilaterale che i media ci hanno dato non dimostra che quella rappresentazione sia necessariamente vera: dimostra solo che non c’era nessuno di realmente potente che avesse interesse a contraddirla. Altrimenti, se questo forte interesse di parte ci fosse stato, bisognerebbe concludere che non si è fatto sentire perché è rimbalzato sul muro compatto e impenetrabile dell’amore per la verità, dell’integrità e dell’indipendenza culturale del giornalismo italiano: una cosa assurda per i livelli di servilismo che l’esperienza e tutti gli osservatori internazionali ci dimostrano esistere.
Da questo discorso discende per conseguenza che chi era aperto al voto (che abbia valutato bene l’opportunità della cosa oppure o no) ha se non altro dimostrato un certo grado di indipendenza o opposizione rispetto ai suddetti blocchi di potere. E’ questo il caso, per esempio, del M5S, che appare dunque come espressione, a quanto ci è dato vedere, solo dell’iniziativa di un comico e del desiderio di cambiamento di tanti cittadini (magari ingenui e faciloni, ma sempre cittadini come gli altri). Ma è pure il caso di Silvio Berlusconi. Il dato politico più significativo, infatti, è che con il voto della settimana scorsa è giunto a compimento il processo di distacco tra il Cavaliere e il blocco di interessi che lo aveva sostenuto.
Qualcuno preferirebbe non ricordarlo, ma una volta in tanti erano berlusconiani. E non è che Berlusconi fosse tanto meno “impresentabile” di oggi: si era già preso le sue belle prescrizioni, con sentenze tutt’altro che lusinghiere; si sapeva già che il boss mafioso Vittorio Mangano era stato “stalliere” ad Arcore; erano note queste ed altre cose. Eppure non era certo trattato come un appestato. Ricordo, tra le altre cose, le manifestazioni di stima del simpatico “amico George” (Bush junior), la standing ovation del Congresso americano, gli alleati europei che non facevano sorrisini sprezzanti quando c’erano da concludere certi affari e persino le platee festanti di Confindustria: tutto questo mentre in Parlamento il centro-destra portava avanti egregiamente, a colpi di leggi-vergogna, la sua bella battaglia per l’impunità personale del capo. Da un certo punto in avanti, però, il cammino giudiziario di Berlusconi è diventato incompatibile con la difesa degli interessi costituiti: perché questi interessi hanno preteso continuità proprio quando il Cavaliere ha avuto bisogno di rompere.
Oggi Berlusconi è ormai vecchio, stanco e pensa solo a evitarsi la galera: non può più essere quel paladino del liberismo su cui molti confidarono. Anzi, come si è capito la settimana scorsa, può essere addirittura un ostacolo da eliminare. Eppure non è detto che sia giunta la sua fine politica.
In primo luogo, se per il momento le strade del Cavaliere e dell’establishment politico-economico divergono, non è detto che non possano ancora tornare a convergere in futuro. E’ difficile, proprio perché è difficile trovare una soluzione ai molti nodi giudiziari: ma non è impossibile.
Secondariamente a Berlusconi rimane un grande capitale in mano: i voti. Se le cose dovessero andare bene per le larghe intese (periodo ipotetico dell’irrealtà), ne beneficerà elettoralmente soprattutto il PD; e se dovessero andare male, nessuno voterà mai per Angelino Alfano. La realtà, dunque, è che Berlusconi rimane il catalizzatore elettorale del centro-destra. Per questo nel suo partito tutti continuano a lisciargli il pelo: perché sanno che senza di lui fanno poca strada. E questo comporta non poca influenza in mano al pregiudicato di Arcore.
Infine, anche volendo sognare un mondo senza Berlusconi (ma non “deberlusconizzato”, perché i piccoli “berluschini” sono tanti e sono fra noi), non è lecito aspettarsi di poter godere dell’unica conseguenza veramente positiva di tutta questa situazione: cioè (almeno fin che il pover’uomo resterà in salute) non è lecito attendersi che “Berlusconi” cessi finalmente di essere l’alibi per tutte le idiozie fatte a Roma e Bruxelles. Al contrario: accanto allo spread, ai mercati e all’instabilità politica, sembra già di vederli, commentatori e politici di ogni risma, impugnare la nuova arma per il terrorismo di massa contro chi osa muovere la più piccola critica: “volete forse che torni lui?”.
Andrea Giannini