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"Legere", fannulloni, delinquenti, cappelloni, sporchi. La stampa ben pensante e non solo si scaglia contro i giovani che negli anni sessanta lottano sognando un mondo diverso da quello capitalista
Nella precedente uscita ci siamo soffermati sui giovani come nuova categoria sociale e abbiamo ricordato che intorno alla metà degli anni ’60 era diffuso presso i giovani contestatori di tutto il mondo uno slogan attribuito agli hippies americani: “non fidarsi di chiunque abbia più di 30 anni”.
Oggi, questa frase potrebbe anche farci sorridere, ma allora era da intendersi molto seriamente: esprimeva l’intenzione di tagliare in modo netto con il mondo costruito dalle generazioni dei padri. Molti scapparono di casa (ma attenzione, non si trattava di fughe per capriccio) lasciandosi, spesso alle spalle, una posizione sociale benestante, ma divenuta esistenzialmente insopportabile; altri rifiutarono, in maniera più o meno radicale, la logica del lavoro, ma non perché non avessero la voglia di lavorare, piuttosto perché non volevano farsi prosciugare l’esistenza e oscurare i sogni sotto la scansione quotidiana di un lavoro alienante; tanti si rifiutarono di fare il militare o disertarono, esponendosi a pene molto severe. Negli Stati Uniti un certo numero di ragazzi, per sfuggire all’arruolamento che li avrebbe portati a combattere e a morire in Vietnam si tagliò l’indice della mano destra, come estrema, fisica, diretta protesta contro la guerra.
Ebbene, contro tutti questi giovani (tantissimi, ed oggi, a rievocare quei fatti, mi salgono contemporaneamente commozione e una tristezza infinita) la stampa ben pensante e anche certa stampa di sinistra si scagliò contro violentemente, indicandoli come “legere”/fannulloni/delinquenti/capelloni/sporchi… Tuttavia, come già si è detto, la violenza di questo attacco obbediva ad un copione: isolare la protesta giovanile da altri settori della società civile, intellettuale e produttiva che già esprimevano un’intenzione critica, cercando di comprimerla/circoscriverla entro i limiti del conflitto generazionale, come si trattasse di una roba da “scapestrati”. Ma come si è sottolineato, la posta in gioco andava ben oltre.
E poi non tutti erano giovani. Esisteva infatti un’area di intellettuali, persone di cultura e settori più avanzati e politicizzati della classe operaia (possiamo ipotizzarla come composta da “fratelli maggiori”, professori che si avevano all’università, poeti, scrittori, filosofi, artisti) che, attraverso scioperi e altri tipi di manifestazioni, esprimeva inequivocabilmente il proprio dissenso e/o antagonismo nei confronti della società capitalistica e del modo di vivere borghese. Ebbene tra questa area di pensiero e d’azione e le nuove generazioni ci fu un proficuo scambio, esattamente quello che si voleva impedire.
Ma altri due aspetti fondamentali penso vadano considerati:
1) la diretta sensibilità proprio delle giovani generazioni che ora avevano gli strumenti culturali adatti a leggere/interpretare la storia da un punto di vista non conformista
2) la scansione degli eventi storici: ogni qual volta succedeva qualcosa di storicamente rilevante, il fiume della protesta s’ingrossava sempre più.
Ecco, proviamo a saldare questi ultimi aspetti, cercando di identificare -sapendo già di risultare irrimediabilmente incompleti- il filo rosso che stimolò e spinse i giovani di tutto il mondo a lottare per un futuro diverso. Innanzitutto, va ricordata l’area di artisti, intellettuali che viveva nella Parigi della seconda metà dell’800: quel modo di vivere, ribelle, trasgressivo e anticonformista, indubbiamente fu un simbolo di libertà per le generazioni future. Non dimentichiamo che in quegli anni soffiava un vento rivoluzionario piuttosto forte. Molti musicisti (Listz, ad esempio) parteciparono alle rivolte che nel 1848 divamparono in Europa. Sempre nel 1848 uscì a Londra il manifesto del partito comunista, scritto da Marx ed Engels. Nel 1871 ci fu la comune di Parigi, primo tentativo- represso nel sangue- di inaugurare un diverso modo di vivere e di produrre. La lotta contro la tirannia, per le carte costituzionali, diventava anche lotta per abbattere le ingiustizie sociali e tentare di costruire un mondo migliore, più giusto. La rivoluzione in Russia, nel 1917, fece sperare che tutto questo fosse possibile, ed i poeti futuristi come Majakovski misero la loro poesia al servizio della rivoluzione. Le atrocità della prima guerra mondiale, il delirio criminale del nazifascismo, il rovesciamento delle speranze rivoluzionarie in una dittatura, quella sovietica, ideologica e repressiva, contribuirono a diffondere fra la parte più attiva della gioventù di allora, un sentimento di opposizione alla guerra e ai regimi totalitari. Anche la vicenda della Repubblica di Weimar, con l’implicito messaggio di speranza che conteneva, rimase impresso nella memoria.
Gianni Martini
Commento su “Non solo giovani: intellettuali e politica al servizio del “cambiamento””