Il Presidente della Repubblica tirato in ballo nelle intercettazioni relative all'inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia; proviamo a fare chiarezza fra le tante notizie che sono state pubblicate sulla vicenda
Che c’entra Napolitano con la mafia? Come mai l’attuale Presidente della Repubblica si mette a parlare di “interpretazioni arbitrarie e tendenziose” della stampa, che proverebbero ad accostarlo, in qualche modo, a una vecchia trattativa tra parti dello Stato e la mafia siciliana? Come mai alcuni giornali (anzi un solo giornale: Il Fatto Quotidiano) si sono messi di punto in bianco ad attaccare il Capo dello Stato in un periodo così difficile per il nostro paese? Ha forse ragione Eugenio Scalfari, che su Repubblica insinua il sospetto di un tentativo di destabilizzazione ai danni del governo Monti, che ha avuto proprio in Napolitano il massimo sponsor istituzionale?
Diciamo la verità: gli Italiani non ci stanno capendo niente. Forse non sono nemmeno così interessati all’argomento, e magari sono preoccupati per altre cose, come la crisi economica o gli Europei di calcio. Quindi bisogna riepilogare i fatti. Le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta stanno indagando a vario titolo sulle stragi di mafia del 1992-93, che fecero vittime tra politici di fama nazionale (Lima e Salvo), giudici di primo piano (Falcone e Borsellino) e poi anche cittadini comuni: uomini, donne e anche bambini piccolissimi, rimasti uccisi in veri e propri attentati terroristici finalizzati a destabilizzare il paese. La mafia dei Corleonesi faceva la guerra allo Stato per fare la pace: cioè ottenere un accordo sul carcere duro (41-bis), revisione dei processi e altre questioni. Ed è stato accertato che pezzi dello Stato si mossero per avviare una trattativa con Cosa Nostra allo scopo di fermare le stragi; oppure, più prosaicamente, allo scopo di salvare la pelle a certi politici che temevano per la propria vita.
Un canale di contatto fu trovato tramite i carabinieri del Raggruppamento Operativo Speciale (ROS), che agganciarono, attraverso il figlio Massimo, l’ex- sindaco mafioso Vito Ciancimino, amico di Riina e soprattutto di Provenzano. Questo canale venne poi soppiantato da altri che, a quanto si sa finora, non risultano bene identificati. E’ un fatto però che a un certo punto le stragi cessarono; ed è un fatto che Giovanni Conso, allora Ministro di Giustizia, revocò il carcere duro a circa 300 mafiosi. Persino le catture di Riina (prima) e Provenzano (poi) presentano punti oscuri, che sarebbe però troppo lungo riepilogare qui.
Per quel che ci riguarda basti dire che in queste torbide vicende, su cui sarebbe bene fare luce, Napolitano non è mai entrato, e nessuno sospetta che l’attuale inquilino del Quirinale possa avervi avuto un ruolo. Senonché la magistratura, nel corso delle sue indagini, mette a confronto due ex-politici, oggi privati cittadini, che avevano occupato in quella stagione posizioni di primo piano: Claudio Martelli, socialista già Ministro di Grazia e Giustizia, e Nicola Mancino, democristiano e Ministro dell’Interno dal ’92 al ’94. Mancino, già celebre per aver negato (e poi in parte ritrattato) un avvenuto incontro col giudice Borsellino pochi giorni prima della bomba in Via D’Amelio che lo uccise, viene chiamato a ricostruire gli avvenimenti: ed entra in contraddizione con la testimonianza resa da Martelli. Non occorre un genio per capire che, se due testimoni forniscono due versioni opposte, significa per forza che uno dei due mente. Pertanto la magistratura convoca un confronto faccia a faccia tra i due e indaga Mancino per falsa testimonianza. A questo punto l’ex-ministro si spaventa e, ignorando di avere il telefono sotto controllo, comincia a chiamare D’Ambrosio, collaboratore di Napolitano. Le intercettazioni pubblicate non lasciano dubbi: Mancino vorrebbe che il Quirinale in qualche modo facesse pressione sulla magistratura.
Incredibilmente D’Ambrosio non respinge la richiesta di Mancino: anzi, fa capire che il Presidente Napolitano si starebbe interessando della questione. Viene addirittura messo in mezzo il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, che però si defila con eleganza ed intelligenza. Non basta. Secondo quanto dice D’Ambrosio al telefono, Napolitano suggerirebbe a Mancino di parlare con Martelli – pare di capire – per concordare una versione comune: in pratica, una falsa testimonianza.
Le manovre alla fine non sortiscono alcun effetto: ma che ci siano state è un dato di fatto. A questo punto bisognerebbe capire se D’Ambrosio abbia millantato tutto, oppure se Napolitano sia stato davvero a conoscenza della cosa. Non sarebbe facile per il Presidente dimostrare la seconda ipotesi: agli atti si scoprono due telefonate intercorse proprio tra Mancino e Napolitano, che la magistratura correttamente distrugge perché non penalmente rilevanti. In ogni caso il problema non si pone nemmeno, perché il Quirinale non si degna di rispondere.
Dal Colle si susseguono dichiarazioni di disgusto contro il solito “fango mediatico”, si deplora l’atteggiamento di certi organi di stampa e si invoca addirittura una legge contro le intercettazioni. Ma di risposte nel merito nemmeno l’ombra. Insomma, al di là della sostanza, nella forma Napolitano si comporta come un Berlusconi qualsiasi, addirittura minacciando quella stessa “legge bavaglio” contro cui la stampa italiana si era mossa compatta. Solo che i mass-media questa volta si prestano al gioco. Anziché incalzare Napolitano chiedendogli trasparenza verso l’opinione pubblica e risposte nel merito, tirano su un bel polverone con il preciso obiettivo di rendere difficile capire cosa stia effettivamente succedendo.
Invece di raccontare i fatti, giornali e televisioni stanno cercando di annacquarli. Purtroppo questa è la realtà. Ed è anche una vecchia storia. L’informazione in Italia dipende da partiti e da gruppi industriali. Per questo motivo, quando una notizia risulta sgradita tanto alla classe politica quanto a quei settori dell’economia che controllano l’editoria, ecco che diventa difficile per il cittadino ottenere un’informazione completa; perché automaticamente quasi tutti i direttori e i responsabili si preoccupano più di non scontentare chi gli paga lo stipendio, che di fare quello che sarebbe il loro mestiere: cioè dare le notizie. Questo non significa censurarle. Non ce n’è bisogno: basta dare ampio risalto ai commenti e poco spazio ai contenuti. I TG si aprono con titoli fuorvianti e poi si mettono prima le smentite e le dichiarazioni dei protagonisti (che raccontano le cose a modo loro), poi succintamente un riassuntino dei fatti (da cui si capisce poco o nulla). Nei giornali è ancora più semplice: titoloni a prima pagina tipo “L’ira del Colle – Trattativa Stato-mafia, Napolitano attacca: io trasparente” (Repubblica), oppure “Napolitano interviene «Campagna di sospetti costruita sul nulla»” (Corriere della Sera); poi si aggiungono commenti di editorialisti e politici, ed infine si seppellisce da qualche parte nelle pagine interne l’ottimo lavoro dei cronisti, che riportano tutto, intercettazioni comprese.
Così il cittadino che si intestardisce e perde tempo ad approfondire l’argomento può riuscire a farsi un’idea sufficientemente chiara; ma tutti gli altri, cioè la maggioranza delle persone, che non hanno o la possibilità o la voglia di sviscerare la questione, si faranno inevitabilmente un’idea confusa e approssimativa. Ed era proprio questo l’obiettivo.
Verrebbe da chiedersi come mai tutti si adoperino per evitare che Napolitano finisca invischiato in faccende opache. La risposta è semplice: è in gioco la credibilità del paese. Il momento è difficile, l’Italia sta negoziando a livello europeo per sistemare i problemi del debito e non deve perdere quel poco credito d’immagine che ancora le viene concesso. La classe politica, già abbastanza compromessa e sfiancata dall’impegno a sostenere un governo scomodo, è priva di certezze e non può permettersi di perdere l’unico punto fermo. Ve lo immaginate cosa succederebbe se Napolitano si dimettesse? Cosa farebbe Monti rimasto solo a dialogare con il peggior Parlamento della storia repubblicana, che deve approvargli le leggi e che per di più dovrebbe mettersi a tentare un difficilissimo accordo per eleggere un nuovo Presidente della Repubblica? Sarebbe un bel problema.
Tuttavia la mancata trasparenza che ha sempre avvolto tutte le più inquietanti vicende italiane, soprattutto in tema di mafia, è un problema ben più grosso. Per questo dico che non c’è malintesa ragione di Stato che tenga: Napolitano farebbe bene a prendere le distanze dal suo collaboratore ed ex-magistrato D’Ambrosio, costringendolo alle dimissioni per aver speso il suo nome in manovre torbide e in tentativi di pressione sulla magistratura inquirente. L’alternativa sarebbe dimettersi personalmente. Capisco che si tratti di un’affermazione pesante, ma anche se non ci sono rilievi penali, da un punto di vista politico ce n’è abbastanza per rovinare la carriera di chiunque. Si è mai visto un Presidente della Repubblica che si muova nei confronti della magistratura su richiesta di un privato cittadino, che da quella stessa magistratura è indagato per falsa testimonianza, per giunta su vicende di mafia?
Inutile dire che, se fossimo in Inghilterra, Germania o Stati Uniti il Presidente sarebbe in grossi guai e rischierebbe di doversi dimettere. L’opinione pubblica avanzerebbe domande fin troppo ovvie: perché Mancino, per problemi suoi personali, ottiene udienza e appoggio presso il Quirinale? Avrà forse qualche potere di ricatto su Napolitano o su amici di Napolitano? Sono solo sospetti, è ovvio: per quello che ne sappiamo, il Presidente potrebbe aver peccato solo di ingenuità. Ma nelle vere democrazie non si tollera nemmeno l’ingenuità: proprio perché da adito a dubbi. Napolitano avrà agito con le migliori intenzioni: ma noi come facciamo a esserne sicuri?
Negli altri paesi funziona così: o chiarisci o ti dimetti. Il giustizialismo non c’entra un bel niente. Quello che importa è la pretesa del cittadino di dormire sonni tranquilli confidando nell’onestà della sua classe politica: per questo i politici fanno di tutto per dissipare anche i minimi sospetti. La difficile situazione economica del nostro paese non può essere una scusa. Anzi: se i giornalisti si fossero sempre occupati di dare le notizie, gli imprenditori di realizzare profitto creando posti di lavoro, le forze dell’ordine di combattere la criminalità e i politici di risultare limpidi e trasparenti, non saremmo ai punti in cui siamo adesso. Le mafie sono soprattutto un problema economico: secondo alcune stime pesano per il 10% del PIL. Dunque è proprio in questa fase che ci dovremmo preoccupare di non commettere gli errori del passato. Ed è proprio in questa fase che ci sarebbe bisogno di non fare sconti a nessuno.
Andrea Giannini