Sino alla seconda metà degli anni 70 blues, jazz, rock e canzone d'autore interpretano l'urgenza di un nuovo linguaggio espressivo capace di superare un formalismo ormai ritenuto vecchio e vuoto
Mi sembra che già dopo i primi articoli di questa rubrica, inizi ad apparire chiaro quanta importanza rivesta la storia – e dentro di essa la vitalità sociale – nel determinare quell’humus culturale indispensabile perché si formino le energie espressive nuove, quelle in grado di sconvolgere la tradizione, in nome di istanze di cambiamento, spesso radicali, tanto sul piano artistico/estetico quanto socio/politico.
Più in generale possiamo dire che tra la seconda metà degli anni ’40 e la seconda metà degli anni ’70, il blues, il jazz, la canzone folk e rock – con tutte le loro specifiche ed appropriate sfaccettature – sono stati la più significativa fonte di “suono culturale” (quindi espressione vissuta autenticamente, non invenzione del mercato discografico, almeno in origine) che abbia accompagnato gli eventi e le vite di quegli anni. Ma l’urgenza di un linguaggio espressivo “nuovo” che riuscisse a rompere e superare un formalismo ormai ritenuto vuoto e ripetitivo non riguardò solo l’ambientazione – per così dire – “popolare-metropolitana”.
Il filosofo T. W. Adorno, ad esempio, nel trattare di musica, estetica e società, sviluppava una riflessione e una polemica tutta interna alla musica e al mondo “colto”. D’altra parte nel 1908 A. Schoemberg pubblicò i “klavierstucke”, op.31, ritenuta la prima opera atonale del 1900. E proprio con Schoemberg (ma anche Malher, Webern, Berg, Stravinsky, Varèse, Stockausen, Cage, Xenakis, Pousser… limitandomi a pochissimi nomi) iniziò un’avventura espressiva e linguistica che – sviluppando le innovazioni ereditate dai compositori del XIX secolo – seppe coraggiosamente rompere con la tradizione, sconvolgendo le modalità di ascolto degli ultimi 300 anni.
Un fronte molto ampio, quindi, (anche se non compatto) che partiva dalla musica colta per arrivare ai suoni metropolitani. Se quindi sul terreno sociale e politico si parlerà di beat-nik, mods, provos, hippies, figli dei fiori, di intellettuali radicali e di giovani politicamente impegnati; di freak, “indiani metropolitani” (variante italiana) e proletariato giovanile; di movimenti di protesta ed obiettori di coscienza; di avanguardie politiche e sindacali…, sul terreno culturale musicale troveremo le nuove “poetiche d’avanguardia”, il jazz – nelle varianti be bop (dalla seconda metà degli anni ’40) e free jazz (metà anni ’60) – il blues, il rock, la canzone di protesta e poi la canzone d’autore. Cioè, in pratica, i suoni che accompagnarono le azioni politiche di quegli anni, e in cui le generazioni più recenti si riconoscevano. Anzi, non di rado chi componeva quelle musiche e quei testi, partecipava attivamente al “movimento”.
Una cosa, però, ritengo vada precisata. Le avanguardie appartenenti agli ambienti della “musica colta” svilupparono una ricerca ed un’intenzionalità espressiva che, radicalizzando sempre più i linguaggi e gli esiti compositivi, portò ad un progressivo isolamento. Si parlò di crisi della musica e del compositore contemporanei, di autoreferenzialità della musica contemporanea (un bel libro, “Autobiografia della musica contemporanea” racconta di questo dibattito).
Tutto ciò non successe alle aree espressive che indico come “musica metropolitana” che arrivarono a dei notevoli riscontri di vendite discografiche. Caso mai, all’opposto, per la scena blues/rock/jazz/folk/cantautoriale, gli aspetti da evidenziare – in apparente contraddizione – mi sembrano due: da un lato una relativa e progressiva commercializzazione che porterà ad una parziale caduta di motivazione da parte degli autori/compositori, affiancata da una produzione discografica, scopertamente volta a cavalcare l’onda del successo commerciale; dall’altro la testimonianza di come qualità e successo di vendite abbiano potuto anche convivere. In Italia ne abbiamo avuto un chiaro esempio con i riscontri di vendite di gruppi come: Genesis, Pink Floyd, E.L.P, Jethro Tull (ma anche i nostrani: P. F. M, Banco del M.S., Osanna, Area ecc…), e poi, intorno alla metà degli anni ’70 quando la canzone d’autore (soprattutto F. Guggini, F. De Andrè, De Gregori, L. Dalla e via dicendo) piazzerà i propri “LP” in vetta alle classifiche (erano gli anni in cui il movimento di opposizione extraparlamentare raggiungerà i suoi livelli più alti – in quegli anni nascerà “Democrazia proletaria” e si presenterà alle elezioni).
Gianni Martini