Le etichette discografiche sul finire dei sessanta irrompono nel mercato attratte dall'opportunità di business che i nuovi movimenti sociali stavano offrendo. Nasce la musica finto-ribelle, la figura del talent scout e delle etichette "indipendenti"
Dopo i primi anni di cambiamenti sociali (metà anni sessanta), periodo in cui i movimenti innovatori vivono un’esistenza prevalentemente “underground”, le grandi case discografiche – intuendo l’enorme business – iniziano a inserirsi nel gioco, da un lato mettendo sotto contratto gli artisti espressione autentica di quei movimenti, dall’altro producendo ad hoc artisti completamente inautentici, purché avessero il sapore della trasgressione, che semplicemente la evocassero.
Contatto tra i nuovi fermenti musicali e le majors fu il “talent scout”. Questa figura professionale tipica di quel periodo, spesso era un giovane che, facendo parte di quell’ambiente, ne conosceva anche le espressioni artistiche. Improvvisamente, quindi, da qualche costola delle odiate “major” si affacciarono sul mercato etichette discografiche fondate ad hoc per i nuovi linguaggi espressivi; oppure etichette nate come “indipendenti”, nel giro di qualche anno vennero assorbite dalle grosse case discografiche che, tutt’al più, lasceranno loro la facciata di etichetta indipendente semplicemente per non perdere quel segmento di possibili acquirenti; ma soprattutto iniziano a comparire sul mercato discografico, prodotti “finti”, ossia realizzazioni di un “qualcosa che assomigliasse” nel suono, negli atteggiamenti, nell’immagine, nel logo, nei testi, nel “gesto musicale”, alle produzioni espressivamente più significative. Il tutto coniugato in una scala di “novità” pseudo originali, con l’obiettivo di accontentare tutti.
Ciò che veniva a mancare – banalmente – è “solo” l’insieme delle profonde e autentiche motivazioni che spinsero a quelle creazioni originali. Quando poi si arriva a sentire Beethoven, Miles Davis, Hendrix, Doors o F. De Andrè impiegati come “colonna sonora” di spot pubblicitari…beh…ciao!! Ormai, la loro carica innovatrice è stata centrifugata e restituita come schiuma da barba!
Certo, tutto questo è successo – e succede tuttora – in particolare per la “musica giovanile”: rock, pop, canzone, funky, rap… ossia in pratiche musicali di maggior vendibilità. Meno, per quanto riguarda la scena jazz, blues e classico-contemporanea. Anche se occorre ricordare che il cosiddetto “easy listening” della fine degli anni ’70- e tuttora presente, in costante attualizzazione/adattamento – di grande riuscita discografica (l’etichetta americana “GRP” di D. Grusin e L. Reetenour ne fu una delle massime espressioni) altro non è stato che confezionare un prodotto di ascolto immediato (in grado, cioè, di raggiungere un più vasto pubblico di consumatori – appassionati di musica) che potesse vantare grandi interpreti/autori, un alto livello qualitativo delle esecuzioni, un richiamo a sonorità jazz e blues, lasciandone cadere, tuttavia, gli aspetti espressivamente più spigolosi (e autenticamente “di rottura”), rendendo il suono più “moderno”, senza escludere riferimenti stilistici, vicini al pop e al rock.
E volendo aggiungere un esempio nell’ambito della canzone, si potrebbe ricordare quella che Luigi Tenco menzionò nel suo drammatico e chiarissimo messaggio d’addio: “La rivoluzione” cantata al Festival di Sanremo del 1967 da G. Pettenati. Canzone finto-trasgressiva/protestataria che, titolando esplicitamente “La rivoluzione”, parola tabù, cercava di suggerire un’immagine di anticonformismo giovanilista. Oltre vent’anni dopo un altro esempio di produzione musicale finto-ribelle trovò sempre nel palco del Festival di Sanremo (e il fatto non va ritenuto un caso) il contesto “ideale”. E si tratta di un cantante, Scialpi, che, se non ricordo male, si presentò con i blue jeans mezzi stracciati, con una curatissima mise pseudo punk/pseudo trasandata/pseudo ribelle. A chi intendevano rivolgersi G. Pettenati e Scialpi? Obiettivo dei loro produttori era evidentemente quello di agganciare quella parte di pubblico giovanile che si sarebbe accontentata di atteggiarsi a “ribelle”, non intendendo minimamente esserlo sul serio: uno scambio giocato tutto sul piano simbolico (il modo di vestire, i gadgets, l’ascolto musicale…), tenendosi ben lontani dai processi sociali reali che quei simboli crearono.
Anche la musica classica non fu estranea a questo fenomeno. Ricordo un ensemble, “Rondò veneziano” che proponeva brani strumentali di sapore rinascimental-barocco, come dire una musica rilassante, melodica che non creava tensioni, rivolta trasversalmente ad un pubblico anonimo e conformista. Infatti sogno del direttore generale di qualsiasi major ritengo sia quello di produrre un catalogo in grado di accontentare, come si diceva, “tutti” e semplicemente spingendo il prodotto che in quel determinato momento si ritiene possa vendere di più.
Gianni Martini