Mentre il pool dei "dieci saggi" si appresta a fare non si capisce bene cosa, l'imponente risultato elettorale di Grillo rimane l'unico vero ostacolo all'inciucio tra Pd e Pdl: ed è il motivo per cui su di lui gravita il livore dei mezzi d'informazione
Il dato politico di questa settimana è la pervicace tensione collettiva all’inciucio PD-PDL: che sarebbe già una realtà, se non ci fosse la seccante presenza del M5S a complicare notevolmente le cose. Prendiamo l’ultima mossa di Re Giorgio Napolitano. E’ vero che, come è stato osservato un po’ da tutti i commentatori, la trovata dei dieci “saggi” serve soprattutto a prendere tempo, in modo da congelare la situazione fino a quando non verrà eletto un nuovo e politicamente più forte Presidente della Repubblica; ma è anche vero che, se si è scelto di farlo con questi nomi e con queste modalità, lo si deve soprattutto al fatto che si è voluto indicare anche un preciso indirizzo. Mentre il governo Monti rimane in carica, il pool composto da vecchi politici e alti funzionari pubblici dovrebbe lavorare alacremente per creare un programma “condiviso”. E tanto meno chiaro è per l’opinione pubblica l’esito preciso che di qui è lecito attendersi, quanto più chiaro è il messaggio lanciato dal Quirinale: costruire ponti, sopire le divisioni, creare “convergenze”, instaurare il “dialogo”, garantire la “governabilità”, auspicare le “riforme”, dare “credibilità”, “mantenere gli impegni” e così via con tutta la serie di frasi fatte che compongono l’attuale dibattito politico; frasi che – voglio sperare – i lettori di questa rubrica avranno ormai cominciato a guardare con sospetto.
Dovrebbe essere evidente, anzi, che certi termini rassicuranti e certe locuzioni tautologiche non hanno un reale significato: sono solo “supercazzole” stile Conte Lello Mascetti; parole a caso dette per confondere l’interlocutore e raggirarlo. E funzionano benissimo. L’inequivocabile verdetto degli elettori? Posterdate per due con impegni da mantenere. La lotta all’austerità? Terapia tapioco governabilità sprematurata. E l’ineleggibilità di Berlusconi? Riforme condivise come se fosse antani. Almeno il rinnovamento della politica? Convergenze alla supercazzola con scappellamento a destra.
Insomma, inventarsi scuse in un clima di emergenza non è un problema: ma l’intento è quello di tirare su un esecutivo compatto che azzeri in fretta le distanze marcate in campagna elettorale e torni docilmente sulla strada del pensiero unico. Come dire: votare è stato bello, ma ora non scherziamo. Nuove elezioni, guai a parlarne: «Sarebbe una sciagura!», ha tuonato Bersani (e visti gli storici risultati del PD non possiamo biasimarlo). Così si va avanti a deprecare la mancata convergenza e gli egoismi dei partiti, mentre si producono giustificazioni sempre fresche per teorizzare le manovre di palazzo. L’ultima in ordine di tempo è: “serve urgentemente un governo di larghe intese per evitare l’effetto recessivo del combinato di tagli e tasse in arrivo”; di cui però è responsabile il precedente governo, che a sua volta – guarda un po’! – era stato incaricato urgentemente e aveva governato grazie alle larghe intese! Il Bersani imitato da Crozza avrebbe detto: «Ragassi, non è che a Gesù ci puoi dire che chiodo schiaccia chiodo!». Eppure è proprio quello che stanno dicendo a noi.
L’altra scusa, quella dello spread, come avevo agevolmente previsto (ma non ci voleva un genio…) in questo momento è disinnescata. Il perché lo ha spiegato bene la settimana scorsa a Radio 24 Davide Serra, il finanziere che da Londra paga la campagna elettorale dell’amico di Maria De Filippi: il governo Monti ci ha legato mani e piedi ai vincoli di bilancio, col risultato che non possiamo più spendere un euro senza il placet di Bruxelles. E questo se da un lato, per il momento, fa si che i nostri creditori siano piuttosto tranquilli, dall’altro rende necessaria una nuova trovata geniale: “serve un governo credibile per contrattare in sede europea un po’ meno di austerità”. Capolavoro.
Peccato che per questo servirebbe piuttosto un governo in-credibile. Ammesso e non concesso, infatti, che sia vero quello che recita la vulgata corrente, cioè che bisogna convincere l’Europa che non siamo spendaccioni e scansafatiche, possiamo forse sperare di farcela con un Monti dimissionario sostenuto a sua volta dal partito che “non ha vinto le elezioni” e dal partito del “bunga-bunga”? Se voi foste “l’Europa” (questa entità mistica), anche se l’operazione di maquilage riuscisse meglio e il Presidente del Consiglio incaricato fosse una nuova personalità dall’ottima reputazione, per questo vi fidereste? La risposta mi pare ovvia: tant’è che la Commissione Europea continua a ribadire ad ogni occasione che non ci saranno sconti per l’Italia. E anche se ci concedessero – bontà loro! – uno zero virgola di deficit in più, è difficile sostenere che questo potrebbe bastare a ribaltare le sorti del paese.
Aggiungo un’altra cosa, visto che il puntello di ogni possibile alleanza è il PD e si invoca la “credibilità”: che credito si può dare ad un partito che va alle elezioni annunciando accordi con Monti (cioè uno che Paul Krugman non fatica a definire “il pro-console installato dalla Germania”) e che poi dopo le elezioni corre precipitosamente incontro alle forze che criticano radicalmente il rigore? Va bene cambiare idea: ma in questi casi è difficile sfuggire all’impressione che si vada sempre dove soffia il vento.
E’ pur vero che tutto questo discorso sembra contraddetto dal fatto che Bersani resta fermo sul no al “governissimo” e appare orfano di Grillo, più che di Berlusconi. Ma non bisogna commettere l’errore di guardare la realtà attraverso le lenti dei manichei di sinistra: quelli che avrebbero voluto tanto vedere insieme “i buoni” (M5S e PD).
Cerchiamo piuttosto di andare al sodo. Quello che vuole il Cavaliere si sa benissimo: un salvacondotto per i suoi processi. Per ottenerlo è disposto a fare alleanze con chiunque e ad accettare i diktat anche dell’Oceania, se è il caso. Il centro-sinistra, dal canto suo, anche se viene dipinto come prigioniero dell’anti-berlusconismo (da chi evidentemente ha abitato in un altro paese negli ultimi vent’anni), nei fatti non ha mai disdegnato i compromessi sottobanco o le alleanze occasionali giustificate dalle circostanze: si va dalla bicamerale al finale tecnico dell’ultima legislatura. Ma oggi solo Renzi, questa strana specie di liberale di sinistra, può pensare ancora di dar vita ad una qualsiasi coabitazione col Cavaliere votandone (conditio sine qua non) l’eleggibilità e accordandosi con lui su chi mandare alla Presidenza della Repubblica. Bersani, che si ricorda ancora dove dovrebbe collocarsi il partito, giustamente ha qualche remora a sacrificare quel minimo di differenza programmatica che il PD conserva per poi regalare i voti a Grillo, mentre questi se ne sta comodo comodo a sparargli addosso dall’opposizione.
Ecco perché, nonostante le pressioni istituzionali e dei media “moderati”, Bersani resta appeso alla flebile speranza di un accordo in extremis con i grillini: perché dopo le ultime elezioni mercanteggiare ancora con Berlusconi significherebbe dare definitivamente ragione a quel M5S che è diventato primo partito proprio sostenendo l’identità tra PDL e “PD-meno-l”. Se si andasse a nuove elezioni (su questo Renzi ha qualche argomento in più) le cose potrebbero anche cambiare; ma ad oggi è l’imponente risultato elettorale di Grillo il vero ostacolo all’inciucio: ed è il motivo per cui su di lui gravita il livore dei mezzi d’informazione.
Non importa che sia per il timore di restare incastrato nel ricatto della governabilità o per la paura di governare, per calcolo o per caso, per una brillante strategia o per inesperienza politica, per una fine analisi o per ottuso purismo; il dato è che il M5S non si piega alla logica del vincolo esterno (la crisi! i mercati! lo spread! li Turchi!) e non si conforma al pensiero unico (sia fatto ciò che si sa che si deve fare). Questa circostanza inedita manda letteralmente in fibrillazione l’establishment e i poteri consolidati (tra cui rientra a buon diritto anche la criminalità organizzata, che infatti lancia messaggi inquietanti), perché non si può più ricorrere alla vecchia soluzione che faceva tutti contenti: mettersi d’accordo là in alto alle spalle dei cittadini. Al contrario, se per caso Grillo dovesse acconsentire ad un compromesso, c’è da scommettere che, con grande sollievo generale, l’autoritarismo diventerebbe coerenza, la protesta proposta e il turpiloquio dolce stil novo.
Andrea Giannini