Tra scivoloni e improbabili trionfalismi, la crisi politica del vecchio continente si mischia con il campionato europeo di calcio: forse vale la pena ricordare che...
Questa rubrica non si è mai occupata di calcio. Eppure anche lo sport, quando è fenomeno di massa, ha una sua forte rilevanza sociale. In questi giorni, in particolare, la coincidenza tra il torneo europeo e il vertice politico dell’Unione ha reso evidente che il calcio può ispirare un paese, ma che più spesso rischia di trasformarsi in un polverone mediatico che inghiotte tutto e impedisce di distinguere le cose.
Complice, ancora una volta, il quarto potere: i mass-media rappresentati da giornalisti che, per un verso o per l’altro, non sempre fanno una bella figura. La maggior parte di questi ha trasformato il meeting europeo in un clamoroso successo per la diplomazia italiana, mentre contemporaneamente, sul versante sportivo, affastellava considerazioni e analogie di ogni tipo sulla vittoria della nostra nazionale contro la Germania nella “partita dello spread”. Clamoroso il “commento tecnico” (le virgolette sono d’obbligo) degli inviati RAI: ditirambi patriottici di stampo dannunziano, peana sulle gesta degli indomiti guerrieri italici, un romanzo epico a tinte azzurre. E’ evidente che ormai è nata una scuola. Mentre nel 1982 Nando Martellini si era accontentato di un semplice «Campioni del mondo!», già nel 2006 Marco Civoli estrasse dal cilindro la celebre frase «Il cielo è azzurro sopra Berlino!», tanto spontanea quanto la folta chioma corvina del noto giornalista milanese.
Tutto il resto della stampa si è allineata come un cinegiornale del ventennio fascista; ma anche politici, dirigenti e esponenti dell’economia non sono stati da meno. Memorabile rimarrà la dichiarazione del presidente del Coni, Sandro Petrucci, che al fischio finale sentenziava convinto: «lo spread lo dettano gli azzurri, le chiacchiere stanno a zero». Quali chiacchiere non si è capito, visto che di spread se n’è parlato solo in campo economico e politico, ed è sempre, la settimana scorsa come oggi, concretamente e pericolosamente alto.
Come non citare, poi, la lettera di incoraggiamento di Napolitano a Prandelli, neanche partisse per la guerra di Etiopia! Altre chicche sono riepilogate da Marco Travaglio in un articolo di lunedì, e sono involontariamente ma irresistibilmente comiche. Eppure neanche Travaglio dimostra particolare acume nell’aver tifato contro l’Italia. Non perché così facendo abbia leso l’onore della patria, ma perché evidentemente si era convinto che il paese avesse più da guadagnarci, in termini di serietà e concentrazione interna sui suoi problemi, da una sconfitta anziché da una vittoria. E questa è una stupidaggine. In realtà, al di là del sano e normalissimo tifo sportivo, non c’era alcun bisogno di desiderare né che l’Italia vincesse, né che perdesse.
Anche se gli interessi sono tanti e gli intrecci con piani diversi, come quello economico, politico, psicologico e sociale, non si possono negare, non dobbiamo tuttavia dimenticare una piccola banalità: che il calcio è e resta un gioco. Un gioco la cui finalità dovrebbe essere il divertimento di chi lo pratica (nel caso dei dilettanti) e di chi lo guarda (nel caso del calcio professionistico). Insomma, una cosa che certo può appassionare o annoiare, ma che comunque andrebbe valutata per quello che è: uno sport. E quando si vince o si perde, di solito contano i meriti o i demeriti sportivi (per lo meno al netto di “moggiopoli” e “scommessopoli” varie…).
Che lezione possiamo trarre, ad esempio, dalla sconfitta contro la Spagna? Al massimo che gli Iberici sono molto più bravi di noi a giocare palla a terra (onore a Prandelli per averci staccato dal “catenaccio”, ma forse c’è stato anche un pizzico di presunzione di troppo), e probabilmente che i loro settori giovanili sono molto più organizzati dei nostri a sfornare talenti. Ma di certo non si può concludere che gli Spagnoli siano in ogni cosa più bravi di noi, più organizzati, più seri o più talentuosi. Così come non c’è ragione di affermare che noi siamo meglio dei Tedeschi. Forse converrebbe tornare a queste piccole ovvietà: che hanno la forza della banalità.
Non dubito che sotto sotto, a causa del nervosismo derivato dalla crisi economica e dai “nein” poco simpatici con cui Angela Merkel ci aveva risposto fino al giorno prima, la vittoria contro la nazionale tedesca sia stata per molti una valvola di sfogo per frustrazioni a lungo sopite. Non dubito che la coincidenza temporale avesse creato un’aspettativa esasperata tanto nella missione di super-Mario (Monti) a Bruxelles, quanto in quella di super-Mario (Balotelli) a Kiev. E non dubito nemmeno che molti sperassero in una vittoria della nazionale per far passare in secondo piano grandi e piccole magagne nostrane: magari una nuova legge elettorale “porcellum-bis”, un’amnistia sullo scandalo del calcio scommesse o le torbide vicende della trattativa Stato-mafia.
Ma forse basterebbe cominciare a dire che stiamo attribuendo al “mondo del calcio” valenze che non ha o che non dovrebbe avere. Oggi sembra quasi che il mestiere del “giornalista sportivo” sia soprattutto quello di trovare il modo di attaccare ad un fatto per sua natura agonistico e tecnico tutta una serie di significati che non gli appartengono; a vantaggio dello show-business – è chiaro –, ma a danno dello sport. E’ così che certi “cronisti” passano la loro giornata cercando di capire per quale curioso fenomeno della natura i calciatori non vengano allevati in qualche collegio inglese, tipo Eton, ma siano anzi inclini ad utilizzare un linguaggio poco ortodosso, a guidare belle macchine senza osservare scrupolosamente il codice stradale e a cambiare spesso partner per fugaci accoppiamenti amorosi. Ma forse basterebbe dire che un calciatore si giudica per come calcia un pallone: anziché elevarlo a modello di virtù positiva o negativa, lo si potrebbe lasciare a gestire fatti privi di interesse pubblico, le sbronze in discoteca, le fidanzate gelose o le multe della polizia stradale nell’ambito della sua vita privata. Forse varrebbe la pena ricordare che vincere un europeo non ci rende migliori o peggiori, non ci fa stare meglio o peggio. Forse dobbiamo imparare che non possiamo affidare il riscatto del paese a un pugno di uomini, sia esso un governo tecnico o una squadra di calcio.
Forse gli spettacoli sportivi hanno di bello che regalano semplici gioie e sofferenze; ma forse la nostra felicità ce la dobbiamo sudare e costruire da un’altra parte.
Andrea Giannini