Il canovaccio di chi si lamenta dell'immobilismo è sempre lo stesso: "il tentativo di riforma non è perfetto, ma occorre sia approvato comunque, perché è il massimo che si può ottenere e c'è sempre qualche emergenza che ne giustifica l'urgenza". Se questo non avviene, ecco il fantomatico nemico: i "difensori dello status quo". Un quadretto insensato e populista. Questo Parlamento non è rappresentativo e non ha alcun appiglio di legittimità per stravolgere la Costituzione
Secondo una leggenda metropolitana che va molto di moda in questi giorni, l’ostruzionismo parlamentare sarebbe la miglior prova che in Italia per fare delle leggi occorre rafforzare il potere dell’esecutivo. Non ci sarebbe – sempre secondo gli autori di questa analisi – nessun rischio di dittatura: il vero rischio per la nostra democrazia sarebbe piuttosto il famoso, sempreverde “ricatto dei partitini” per prevenire il quale sarebbe stata appunto concepita la riforma costituzionale dei “quadrunviri” Renzi-Boschi, Berlusconi-Verdini.
Ovviamente è vero l’esatto contrario: la conflittualità politica dipende proprio dal fatto che negli ultimi vent’anni gli esecutivi hanno cercato di forzare la mano al Parlamento, dimostrando di sopportarne con malcelata sofferenza le prassi e di fraintenderne la funzione. E’ dunque concreto il rischio non di una dittatura vera e propria, ma senz’altro di una pericolosa deriva autoritaria.
Il canovaccio della critica di chi si lamenta dell’immobilismo è sempre lo stesso, ed è esemplificato magistralmente dall’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: il tentativo di riforma non è perfetto, ma occorre sia approvato comunque, perché è invariabilmente il massimo che si può ottenere, perché c’è sempre qualche emergenza che ne giustifica l’urgenza e perché il paese deve pur approvare delle leggi. E se questo alla fine non avviene, ecco allora che si può individuare il fantomatico nemico: i “difensori dello status quo”.
Questo quadretto, oltre a garantire una sicura presa per il tono populista degli argomenti, è anche molto difficile da smentire, perché fa leva sul principio della inevitabilità del compromesso politico: ossia sul fatto che in democrazia un accordo è nel contempo sia indispensabile, sia quasi sempre imperfetto. E proprio battendo su questo tasto le voci filo-governative possono togliere ogni argomento sia a chi rinviene punti critici in un progetto di riforma (perché in un certo senso la sua imperfezione è scontata), sia a chi vorrebbe un accordo su un altro tipo di riforma (perché è l’ostinazione stessa dell’esecutivo a rendere l’accordo proposto, de facto, l’unico possibile). Siccome non c’è la controprova che si sarebbe potuto fare altrimenti, non si può smentire con i fatti chi contrabbanda le forzature del potere per inevitabili condizioni storiche o per le dure necessità dell’agire politico.
Eppure, a ben vedere, se una cosa non si può smentire, non si può neppure confermare: e dunque proprio in questo aspetto si rivela la completa inutilità dell’argomento. In effetti un’analisi che prenda le mosse dalla mancata approvazione di leggi in un sistema politico (come se in Italia il problema fosse le carenza di norme) si impicca in partenza ad un dato perfettamente inutile. Una democrazia parlamentare non sta lì per produrre leggi come una fabbrica produce carni in scatola: ma per approvare le leggi buone e rigettare quelle cattive.
Allo stesso modo non si possono fare delle statistiche per sostenere che se non viene approvata una certa percentuale di leggi c’è qualcosa che non va: se in un particolare momento storico si impone in una parte della società una concezione politica dannosa per la collettività, e dunque da questa parte continuano a venire proposte di leggi pessime, il Parlamento ha il dovere di cassarle tutte. E questa non è una remota eventualità: è precisamente la condizione che stiamo vivendo ora – o almeno questo è quello che sostiene il premio nobel Paul Krugman, allorché (come ho già ricordato) individua il segreto del successo del Belgio nella mancanza di una maggioranza di governo che si inchini a quelle misure di austerità così di moda, eppure così dannose.
In realtà al fondo di chi si lamenta per i cosiddetti “veti” di questo o quel gruppo politico sta una profonda insofferenza per il senso stesso della democrazia parlamentare.
Il Parlamento – si presume – è il luogo dove si riuniscono i rappresentanti del popolo: ossia un migliaio di persone scelte dai cittadini per votare quelle leggi che loro stessi (47 milioni di persone), per evidenti ragioni di praticità, non potrebbero votarsi da soli. La “sacralità” del Parlamento dipende dunque dal suo essere la migliore approssimazione possibile delle anime e degli umori del paese reale: e in questo senso il suo voto dovrebbe garantire, se non l’infallibilità delle delibere, quantomeno la minore conflittualità possibile – dato che bisogna presumere che una legge votata dal Parlamento sia una legge nell’interesse della maggioranza del paese; e che quindi ci siano meno oppositori, minori proteste e, in definitiva, appunto minore conflittualità.
Naturalmente tutto questo è vero solo in teoria: nella pratica bisogna capire quanto gli eletti siano davvero rappresentativi dei loro elettori. Tuttavia siamo sicuri che se un Parlamento con piena legittimità cassa una legge dopo l’altra, vuol dire che vengono proposte solo leggi che meritano di essere cassate. Possiamo anche non credere alla democrazia parlamentare: ma se ci crediamo, il responso del Parlamento (purché – lo ribadisco – realmente rappresentativo) non si dovrebbe discutere. Dobbiamo riabituarci a pensare che le leggi “buone” sono solo quelle per cui si è trovato un accordo democratico.
Al contrario la logica per cui chi finisce in minoranza non si limita a lamentarsi, ma invoca minore democrazia solo perché i risultati non sono confacenti alle sue aspettative, è una logica – e stavolta non esito ad usare il termine corretto – intrinsecamente fascista, nel senso che è esattamente il tipo di pensiero che storicamente ha preparato il terreno al fascismo. Essa pretende di stabilire prima, attraverso una serie di luoghi comuni non verificati, che cosa sarebbe il “progresso”, la “modernità” o il necessario “cambiamento”: poi, se il Parlamento non si esprime in accordo a questa visione, lo attacca accusandolo di essere “obsoleto”, “lento” o di difendere dei privilegi. Questo atteggiamento non è compatibile con nessuna concezione nota della democrazia (mentre è compatibile col desiderio delle classi dominanti di ottenere assetti favorevoli ai propri interessi).
Qualcuno obietterà, però, che è del tutto inutile considerare il caso teorico di un Parlamento pienamente rappresentativo dell’elettorato, perché molto più frequente è il caso di un’assemblea distante dal popolo, le cui delibere hanno poco a che fare con l’interesse generale. E forse è vero. Tuttavia per l’argomento in questione non cambia nulla. Anzi, ad un Parlamento poco rappresentativo a maggior ragione deve essere impedito di fare leggi, perché è pressoché certo che esse non siano prese nell’interesse dei cittadini. Meno che mai è auspicabile che ad esso si affidino modifiche della Costituzione. Dunque in entrambi i casi, che il meccanismo di rappresentanza funzioni bene o male, i lamenti dei Panebianco e dei Merlo, di tutti i “corrierini” e i “repubblichini”, non hanno alcun senso.
Una volta stabilito che, in un voto a maggioranza, stigmatizzare l’opposizione perché “eccessiva”, auspicando leggi che tolgano ad essa potere, significa fare l’apologia dell’autoritarismo, possiamo anche esaminare nel concreto l’attualità per toglierci lo sfizio: la battaglia contro la riforma del Senato viene da un’opposizione irriducibile in un Parlamento tutto sommato rappresentativo, oppure da un sussulto di coscienza in un Parlamento che per il resto ha perso i contatti col paese reale? Insomma questo Parlamento è rappresentativo degli interessi del paese? E più in generale è legittimato a fare quello che sta facendo?
Per rispondere bisogna considerare vari fattori, come:
1. La bontà del meccanismo elettorale;
2. L’informazione effettiva di cui dispongono i cittadini;
3. Il loro controllo su chi li rappresenta;
4. La coerenza delle cose fatte rispetto a quanto promesso in campagna elettorale;
5. L’eventuale livello di corruzione della classe politica.
Ora, su tutti questi punti credo che la risposta sia pressoché univoca:
1. La legge elettorale con cui si è eletto questo parlamento, il “porcellum,” è incostituzionale proprio perché, scrive la Consulta, essa può produrre “una oggettiva e grave alterazione della rappresentanza democratica“;
2. Siamo al 49° posto al mondo per libertà di stampa;
3. Il controllo effettivo esercitato dai cittadini sugli eletti è scarso, come dimostra il progressivo disinteresse per la politica e l’inarrestabile calo dei votanti;
4. Il PD non ha mai promesso di fare la riforma della Costituzione in campagna elettorale, oltre ad avere esplicitamente negato ogni alleanza con Berlusconi;
5. Infine sulla corruzione di questa classe politica, intesa non solo come corruzione “materiale” ma soprattutto “morale” ossia come smarrimento del decoro e del senso della funzione pubblica, è meglio stendere un velo pietoso…
Per cui nessun dubbio: questo Parlamento non è rappresentativo e non ha alcun appiglio di legittimità per stravolgere la Costituzione.
Anche a un livello puramente indicativo, a nulla vale il famoso 40,8% di Renzi, perché è stato ottenuto sulla metà degli aventi diritto e per giunta alle votazioni per il Parlamento europeo, dove ha pesato molto (come ho dimostrato) l’atteggiamento da tenere con i partner sul continente; mentre di Costituzione non si è parlato affatto. Per contro alle elezioni del 2013, le uniche da cui si possono ricavare indicazioni politiche, gli artefici del “patto del Nazareno”, PD e PDL, hanno preso insieme solo il 47%. Infine neppure i sondaggi sono lusinghieri.
La conclusione, pertanto, è inappellabile: in Italia non c’è un grosso problema di governabilità, non c’è il ricatto dei partitini, non ci sono i difensori dello status quo. È invece in atto, da più di vent’anni, un disegno autoritario guidato dai due partiti maggiori per escludere dalla competizione le altre forze politiche ed esercitare il potere in un regime di duopolio, che assomiglia tanto a un monopolio.
Andrea Giannini
P.S. Con questo ultimo articolo anche Polis va in ferie. Con i miei affezionati lettori ci si rivede a settembre!