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Il caso Berlusconi diventa un buon esempio per una riflessione più generale sul delicato rapporto tra politica e legalità
E’ giusto ricordare che la condanna di Berlusconi nel processo Ruby non c’entra nulla col moralismo e la vita sessuale privata. Il Cavaliere ha preso 7 anni in primo grado per due capi di imputazione piuttosto gravi: prostituzione minorile (rapporti sessuali a pagamento con l’allora minorenne Karima el Mahroug) e concussione (abuso della carica di primo ministro al fine di costringere la questura a rilasciare la ragazza). Si tratta di una vicenda talmente semplice e chiara che, se non riguardasse appunto Silvio Berlusconi (allora Presidente del Consiglio, oggi principale socio di maggioranza del governo, nonché proprietario di un discreto impero mediatico), oggi non susciterebbe la benché minima contestazione o polemica. Nessuno infatti crederebbe mai che l’allora premier, impegnato in un vertice internazionale a Parigi, abbia telefonato in piena notte alla questura di Milano solo per accertarsi che una povera ragazza marocchina, che aveva tanto sofferto e a cui lui elargiva denaro per pietà, venisse trattata bene. Tuttavia è proprio perché i fatti sono così scontati e pacifici (anche al di là degli esiti processuali futuri) che il caso diventa un buon esempio per una riflessione più generale sul delicato rapporto tra politica e legalità.
Un anno fa, in occasione del ventennale della strage di Via D’Amelio, avevo avuto modo di ricordare la lezione di Paolo Borsellino: la politica e la società civile devono anticipare la magistratura, mettendosi al riparo da comportamenti sospetti e equivoci prima che intervengano le sentenze a sancire i reati. Questo atteggiamento è la migliore garanzia contro il famigerato “cortocircuito mediatico-giudiziario”: se i politici fossero tutti immacolati come gigli ed esenti da ombre, ossia se al primo accenno di un fondato sospetto provvedessero a rassegnare le loro dimissioni, sollecitati in questo dal partito, dai colleghi e dall’opinione pubblica, si eliminerebbe alla radice il rischio che la vita politica possa essere condizionata da un percorso, come quello giudiziario, che tendenzialmente dovrebbe esserle estraneo.
In questo senso le lamentele sulla presunta invadenza dei giudici che vengono da destra, e allo stesso modo gli ambigui richiami alla magistratura perché tenga in conto le conseguenze politiche del suo operato (richiami provenienti tanto dalla stampa moderata, quanto talvolta dallo stesso Capo dello Stato), non potrebbero essere più fuori luogo. Se infatti un giudice dovesse calibrare la propria azione in funzione di chi sono i presunti colpevoli, e non semplicemente in funzione di che cosa hanno fatto, applicherebbe la legge diversamente da persona a persona; e quindi negherebbe quel principio per cui la legge è uguale per tutti. Dunque la magistratura ha l’obbligo di essere – per così dire – cieca; di non guardare in faccia a nessuno; di non porsi alcun problema di opportunità (il riserbo, la discrezione e il controllo sulla fuga di notizie sono tutt’altro discorso).
Un’altra questione è se stia alla politica porsi problemi di opportunità rispetto all’azione della magistratura. Può sempre capitare, infatti, che in sede giudiziaria emergano anche questioni politiche: un esempio è proprio il caso Snowden, il funzionario del governo americano che, per aver denunciato e rivelato intercettazioni abusive della CIA, è ora accusato di spionaggio (problema giudiziario), invischiato in spinose trattative per l’estradizione (problema diplomatico) e al centro di una rovente polemica sul rapporto tra privacy del cittadino e sicurezza nazionale (problema politico).
Ciò non significa ovviamente cedere alle parole d’ordine dei difensori d’ufficio del Cavaliere, disposti ad abbracciare qualsiasi giustificazione pur di salvare “il soldato Silvio” e sempre impegnati a invocare la cosiddetta “indipendenza/superiorità della politica” o a paventare il famigerato “schiacciamento della politica sulla magistratura”.
Infatti i politici sono già autonomi: hanno il compito, una volta eletti, di fare quelle leggi che i magistrati dovranno poi far rispettare; hanno la possibilità di esercitare varie forme di controllo (ad esempio i membri del Consiglio Superiore della Magistratura sono nominati per un terzo dal Parlamento); infine hanno la possibilità di negare l’autorizzazione a procedere, se ritengono che un membro delle camere sia indagato pretestuosamente e solo per fini politici (il famoso fumus persecutionis). La politica pertanto può conservare benissimo la propria autonomia pur collaborando con la magistratura in nome del comune interesse per il rispetto della legalità. Ciò premesso bisogna anche ammettere, tuttavia, che la battaglia per la legalità non esaurisce il senso dell’azione politica.
E’ questo un rischio che può coinvolgere il “partito trasversale della legalità”, ossia quella folta schiera dell’opinione pubblica coalizzatasi in antitesi a Berlusconi e interessata al tema della questione morale: una rivendicazione altrimenti sacrosanta, infatti, rischia di perdere efficacia, se si spinge fino a fare della “legalità” la bandiera di un partito (come era ad es. per l’Italia dei Valori) o ad individuare nel tradimento di questo valore da parte della classe politica italiana la ragione unilaterale del declino economico del paese. A questo proposito occorre invece dire che “legalità” non può essere un manifesto ideologico, per l’evidente motivo che non ci può essere (almeno formalmente…) un partito dell’illegalità a fare da contraltare in un ipotetico confronto politico. Allo stesso modo, oltre al fatto che nessun economista serio direbbe mai che l’attuale crisi dipenda in primo luogo dall’illegalità (ad es. corruzione ed evasione), il problema è chiaramente di natura diversa anche per un’altra banalissima considerazione: nulla ci assicura che un politico onesto sia anche competente; in altre parole non è possibile salvarsi dal rischio che si prendano decisioni sbagliate o deleterie solo predicando l’onestà. E’ evidente dunque che la legalità non può essere il traguardo, ma deve essere la normalità, la base di partenza su cui andare poi a costruire quella buona politica di cui pure sarebbe doveroso discutere e di cui invece non si parla mai, come se si sapesse già con sicurezza le decisioni che si deve prendere.
In un senso più profondo, non solo la legalità è condizione necessaria e non sufficiente, ma in circostanze ben specifiche, codificate e del tutto eccezionali, è possibile e accettabile che la politica si ponga anche in contraddizione rispetto all’azione della magistratura.
Esiste una ragion di Stato; esistono esigenze di segretezza; si danno questioni di opportunità politica: per tutto questo è previsto, ad esempio, che il Parlamento possa promulgare un’amnistia (pensiamo all’amnistia Togliatti, che rispondeva a esigenze di pacificazione nell’immediato dopoguerra); è previsto anche che il Presidente della Repubblica possa concedere la grazia (di fatto cambiando l’esito di una sentenza); è previsto infine che siano opposte ad un’indagine ragioni di sicurezza nazionale.
Si tratta ovviamente di casi assolutamente particolari e molto delicati, comunque già contemplati nell’ordinamento vigente. E quello che si è detto fin qui dovrebbe servire a capire perché, appunto, è così raro che il realismo politico si scontri con la legalità: non solo per il rischio intrinseco dato dalla sospensione del normale ordine legale, ma anche perché se una regola è buona (e dobbiamo presumere che lo sia, altrimenti basterebbe cambiarla), raramente infrangendola si producono benefici superiori agli effetti negativi. E per questo stesso motivo l’ipotesi di un salvacondotto per i guai giudiziari di Berlusconi non può essere sostenuta.
Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto da una parte un centro-destra militarizzato e asservito agli esclusivi interessi personali del padre-fondatore; dall’altra un centro-sinistra che non ne ha mai votato l’ineleggibilità, non ha neutralizzato il conflitto di interessi e non ha abolito nemmeno una delle tante leggi-vergogna (quando non ha contribuito direttamente a votarle): questo calpestio della legalità si è poi dimostrato giustificato da una qualche ragione di causa maggiore? Il declino morale ed economico del paese sta lì a testimoniare con tutta evidenza che questa ragione non c’era. Farsi governare da chi pensa solo ai propri interessi e da una classe dirigente di presunti oppositori, che crede solo nei maneggi sottobanco e mente spudoratamente ai propri elettori, era piuttosto prevedibilmente una pessima idea, che niente aveva a che fare con il bene del paese.
La storia oggi non è cambiata. Per la seconda volta consecutiva le due parti governano insieme, dimostrando nei fatti di essersi sempre sorrette a vicenda; e per l’ennesima volta invocano delle finte ragioni di opportunità politica, che sono in realtà ragioni per la sopravvivenza di questa specifica classe politica.
Per assurdo, cediamo pure al ricatto: ammettiamo di fare davvero quell’amnistia che consenta a Berlusconi di non andare in carcere e al governo Letta di sopravvivere. Ci guadagneremmo – è vero – la tanto sospirata “governabilità”; tuttavia, in che modo la governabilità verrebbe messa a frutto per il bene del paese? L’Italia avrebbe bisogno di recuperare quella sovranità monetaria che oggi è affidata ad una banca europea condizionata dagli interessi preminenti di Berlino; e poi avrebbe bisogno di ingenti investimenti pubblici per stimolare la domanda. Invece, come è stato negli ultimi vent’anni e come è tuttora, è evidente che Berlusconi ritornerebbe a farsi i fatti suoi, mentre Letta proseguirebbe nella rincorsa del sogno “eurista” che sta devastando il paese e nelle deleterie riforme istituzionali che si pongono come obiettivo lo sfascio della Costituzione. Qualche “decreto del fare” o qualche “pacchetto per l’occupazione”, non incidendo sui veri problemi di cui sopra, sarebbero solo un palliativo, o peggio una foglia di fico.
Insomma: il gioco non vale la candela. Si dimostra quindi che non c’è alcuna ragione di realismo, pragmatismo o opportunismo politico nel tenersi una classe dirigente che non rispetta le regole, visto che in genere il politico non rispetta le regole perché o è un ladro o è un venduto. Ed è normale che il ladro derubi anche chi lo elegge e il venduto venda persino il suo paese.
Andrea Giannini