Il problema dell'Europa è soprattutto politico, i leader sono allenati a non perdere voti piuttosto che a ispirare una visione nelle masse
Ora interviene anche Obama. E il problema del debito europeo diventa ufficialmente un problema globale. Con la Spagna sull’orlo del default e le indiscrezioni su un tardivo e improbabile piano di salvataggio europeo, gli Usa cominciano a preoccuparsi davvero.
Tanto che si farebbe presto a scambiare per eccesso di arroganza le parole del portavoce della Casa Bianca, che ha dato la disponibilità dell’amministrazione americana «a consultarsi e a consigliare» le capitali europee in tema di crisi. Vale a dire “volete cominciare a fare qualcosa o vi dobbiamo fare un disegnino?”
In realtà, come ha detto giustamente Edward Luttwak, non si tratta di arroganza: si tratta piuttosto di disperazione. Obama è già in campagna elettorale. Aveva appena finito di avviare il paese lungo il cammino di una crescita stentata, coordinandosi anche con gli interventi della FED per tenere il dollaro ad un livello competitivo, che è piombata la crisi europea a rischiare di rompergli le uova nel paniere. Se l’euro continua a svalutarsi, gli USA devono continuare a svalutare a loro volta per mantenere un rapporto euro/dollaro favorevole alle esportazioni. Inoltre se va in crisi il mercato europeo, va in crisi l’economia americana. Anzi, va in crisi l’economia mondiale.
I dati economici sulla prima parte del 2012 danno Cina e India a livelli di crescita “ordinari”, lontani comunque dai livelli astronomici che avevano ancora nel 2011. Il Brasile, dopo il +7,5 % del 2010, è oggi in una fase di rallentamento che si avvicina alla recessione. E molti analisti attribuiscono la colpa di tutto alla crisi del debito europeo: il che significherebbe che persino i paesi cosiddetti “BRICS” (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) soffrirebbero per i problemi dei cosiddetti “PIIGS” (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna). E quindi il mondo è a un livello di interconnessione che forse non immaginavamo.
Per questo tutti sono preoccupati per il vecchio continente e stanno cominciando a fare pressioni, a vario titolo. Obama non sta solo suggerendo ricette economiche: sta cercando di sfruttare il suo peso politico per smuovere lo stallo. Il problema infatti non è che sui tavoli delle diplomazie europee manchino soluzioni: il problema è che si fa fatica a decidere chi debba pagarle.
La Germania non si fida dei paesi dell’Europa meridionale, e per impegnarsi ancora a livello europeo (cioè per mettere denaro sul piatto), vuole che questi accettino di sottoporsi a regole comunitarie di politica di bilancio e di controllo dei conti: il che significherebbe abdicare a una parte di sovranità nazionale per delegarla a un’istituzione dove i Tedeschi la fanno da padroni. Intanto però questi paesi qualche sacrificio hanno cominciato pure a farlo: e finora la situazione è solamente peggiorata. Un cambio di rotta non si profila e la baracca minaccia di venire giù da un momento all’altro. Per questo cominciano a chiedersi se sia loro interesse rimanere a queste condizioni.
In questo contesto, però, in cui tutti accampano sacrosante divergenze di vedute nazionali, viene meno proprio quella convergenza di interessi che era stata la fortunata condizione storica di partenza. Vale a dire che l’Unione Europa si era formata ed è rimasta in piedi fino ad oggi in parte grazie all’intuizione di una ristretta élite politica, ma in parte grazie al semplice fatto che a tutti è convenuto così. La Germania si è rifatta una verginità politica per la prima volta dal dopoguerra, e si è trovata con una moneta non troppo forte che ha favorito le sue esportazioni. I paesi del Sud si sono legati ad una regione economica più vasta e solida, che li ha messi al riparo dall’inflazione e ha garantito anche finanziamenti per le aree sottosviluppate. Fintanto che tutti sono stati bene, nessuno ha avuto niente da ridire. L’integrazione europea ne ha guadagnato. Grazie agli accordi di Schengen, per andare in Francia non era più necessario cambiare le lire con i franchi. E nessuno si preoccupava davvero che il coordinamento politico fosse insufficiente e rimanesse affidato a burocrati scelti dai partiti e mandati in istituzioni distanti dalle popolazioni che avrebbero dovuto rappresentare. Eppure è proprio per questo motivo che oggi l’Europa rischia di saltare.
La crisi economica non è il responsabile, esattamente come non si può ritenere un compito in classe responsabile dell’impreparazione di uno studente. Se oggi l’Europa rischia di non superare nemmeno il suo primo test, ciò significa solo che era drammaticamente impreparata.
Bisognava costruire un’unità politica, invece che accontentarsi della soluzione tanto comoda quanto fragile di mettere insieme moneta unica comunitaria e autonomie politiche nazionali. Certo, probabilmente serviva tempo: e nessuno si aspettava che il problema si sarebbe presentato così presto. Ma l’inerzia e la mancanza di iniziativa dell’attuale leadership europea stanno lì a dimostrare che lo slancio europeista e l’idealismo degli inizi si sono completamente liquefatti in pochi anni, sprofondati nel molle abbraccio di un benessere che si pensava infinito: e la costruzione di un progetto con grandi speranze si è atrofizzata e spenta.
Insomma, se la crisi fosse scoppiata tra cinquant’anni, ci avrebbe colto alla sprovvista allo stesso modo di oggi. E come oggi ci avrebbe messo di fronte ad un bivio: o riprendere con decisione la marcia verso gli Stati Uniti d’Europa, ammesso che non sia troppo tardi, oppure ognuno per la sua strada. Gli Eurobond possono salvarci dalla sfiducia dei mercati, ma genereranno problemi in futuro: e non possono salvarci dalle contraddizioni di una politica ripiegata negli egoismi nozionali.
Purtroppo i leader europei si sono finora rivelati privi di respiro, mostrando di aver smarrito una vecchia verità: che per far politica non bastano voti, carisma, personalità, eloquenza, un pizzico di cinismo e onestà individuale, ma occorre anche una visione dialettica della realtà. Il politico non deve essere solo reattivo, saltando quando si presentano problemi, ma deve essere attivo, operando nella realtà per modificarla secondo una visione ben precisa e costruendo attorno a questa il consenso necessario. Il problema dell’Europa è quello di avere politici allenati a non perdere voti piuttosto che a ispirare una visione nelle masse. La Merkel difende gli interessi tedeschi. Ma Kohl immaginava un ruolo per la Germania in Europa. La differenza sta tutta qui.
Andrea Giannini