"Polis" si fa fiume in piena, in questi caldi giorni post elettorali l'analisi politica di Andrea Giannini tocca tutti i possibili scenari e gli aspetti chiave che decideranno il futuro del nostro paese
Mi dispiace dire “l’avevo detto”. Ma ripensandoci, quasi quasi, non mi dispiace per nulla. Per cui, anzi – ribadisco – l’avevo detto: Beppe Grillo è arrivato dove pochi si aspettavano potesse arrivare. Berlusconi, dal canto suo, è riuscito a dimostrare di non essere morto. Entrambi devono ringraziare Bersani, che li ha lasciati fare. Il voto ci consegna all’ingovernabilità e a un rebus di alleanze che sembra difficilmente risolvibile. L’onere di dare l’avvio al gioco è ora nelle mani di Bersani, che dalla sua parte ha un solo vantaggio: ha tutto da perdere e nulla da guadagnare. Questo dovrebbe suggerigli di provare una mossa disperata: alzare la posta ed attaccare, mostrando quel carattere che finora gli è mancato. Sullo sfondo l’Europa assiste attonita, infastidita dagli esiti del voto italiano che mette in discussione la sostenibilità politica dell’austerità.
Cominciamo a toglierci dalla testa l’idea che Berlusconi sia tornato nel cuore degli Italiani, perché la realtà è che Berlusconi ha rimontato poco o nulla.
Nel novembre 2011 secondo molti sondaggi il PDL (attenzione: il PDL, non la coalizione di centro-destra) aveva un misero 24% (dal 37,4% delle elezioni 2008). Da quel momento in avanti il Cavaliere si defila dalla scena e il partito probabilmente precipita ulteriormente. Quasi un anno più tardi il nostro ritorna in campo e i sondaggi (ottobre 2012) registrano un risultato che, in media, appare sempre pessimo: 18,1%. A quel punto Berlusconi toglie la fiducia a Monti (inizio dicembre) e mette in moto la macchina elettorale: dispiega la sua enorme potenza di fuoco mediatica, comincia a fare promesse a destra e a manca, attacca tutto e tutti, si fa vedere ovunque, presenzia ogni show televisivo, manda lettere a casa della gente, giura sui figli e sulle aziende, impegna persino i suoi soldi e finalmente si presenta alle elezioni con queste aspettative: un risultato tra il 19,3% e il 21,2%. E in effetti alla fine raccoglie il 21,5% alla Camera e il 22,3% al Senato. Lo stesso andamento si riscontra nel risultato della coalizione di centro-destra: si attendeva tra il 27,8% e il 29,4%, e si è poi avuto il 29,1% alla Camera e il 30,6% al Senato. Nessun sondaggio, come è ovvio, può essere preciso al punto percentuale: un lievissimo rialzo, dunque, non impedisce di dire che il risultato di Berlusconi e del centro-destra è stato sostanzialmente in linea con le attese.
E’ comunque troppo? Non so cosa ci si potesse attendere di diverso. Il deserto di consensi che ha accolto un Casini o un Fini qualsiasi, francamente non è nemmeno ipotizzabile per un uomo che controlla un vero e proprio impero mediatico: 3 televisioni private, un’influenza decisiva sui canali pubblici, almeno 3 testate giornalistiche e 1 settimanale. Per di più, mentre Bersani era impegnato a “smacchiare giaguari”, Berlusconi si dava da fare come un ossesso, mostrando una dedizione alla causa (la sua) che fa quasi tenerezza, alleandosi con chiunque (Lega, MPA, Fratelli d’Italia, La Destra, Pensionati, eccetera) e pensando bene di concentrarsi soprattutto sulle regioni chiave, come la Lombardia. Non sembra strano che alla fine, pescando dal bacino degli ex-elettori delusi (non certo rubando voti al centro-sinistra o a Grillo), sia riuscito a costruire una manciata di punti percentuale di rimonta.
Ma stiamo sempre parlando di un consenso pari a 1 elettore su 5: che fine ha fatto tutto il resto, un bacino che potenzialmente avrebbe dovuto dare a Bersani una maggioranza schiacciante? Qui sta il punto: 4 elettori su 5 NON hanno votato Berlusconi. Nel 2008 erano solo 3 su 5. Dunque dove si è spostato quel 20% di elettori? La risposta è che si sono rifugiati nell’astensione, da Monti oppure da Grillo: il quale, rubando voti anche a Bersani, si è creato un partito in grado di competere con gli altri due. Così, mentre 5 anni fa la torta si doveva spartire tra due coalizioni maggiori, oggi si divide in tre: ecco perché nessuno si è imposto e siamo ad una situazione di stallo. E questo, per inciso, spiega anche la scomparsa dalla scena di quasi tutti i partiti minori, i quali non devono più assolvere alla funzione di incanalare il dissenso contro la logica bipolare (solo la Lega sarebbe entrata in Parlamento anche se non si fosse messa in coalizione con partiti più grandi).
C’è poco da prendersela con Berlusconi. Chi vince è senza dubbio Grillo, che, come avevo detto la settimana scorsa, non ha sbagliato praticamente nulla. All’opposto chi perde è Bersani: che non solo è rimasto fedele alla tradizione storica del suo partito, conducendo il centro-sinistra alla riesumazione della salma di Berlusconi per la terza volta (dopo 2001 e 2008); ma si è spinto oltre, facendosi sorpassare anche dal partito di un ex-comico che fino a 3 anni fa nemmeno esisteva. Per questo un minimo di coerenza dovrebbe suggerire oggi a Bersani di dimettersi.
Mi ha profondamente impressionato, su un altro fronte, la reazione di sdegno quasi violento che è stata riservata al risultato delle urne sia da certi ambienti di casa nostra, sia dall’opinione pubblica estera. Si può essere critici quanto si vuole, ma non bisognerebbe mai mettere in discussione il valore della democrazia, né scadere nel pregiudizio quasi razziale di minorità che tendiamo ad imputare a noi stessi.
Diceva Winston Churchill che la democrazia è la peggior forma di governo, se si eccettuano tutte le altre. L’aforisma ci ricorda che, per tanti e tanto grandi che ci possano apparire i suoi difetti, quello democratico resta il migliore sistema sperimentato dall’uomo per gestire i conflitti sociali. Per questo augurarsi il commissariamento dell’Italia o affermare che gli Italiani sono per loro natura ingovernabili, quasi ad auspicare un regime più “ferreo”, non è solo poco lusinghiero per noi stessi: è anzi molto pericoloso, perché tradisce la presunzione che esista una Verità unica e che tutto possa essere sottomesso al giudizio di un pensiero unico.
Al contrario la sberla democratica che queste elezioni hanno impartito è salutare: e dovrebbe essere di monito proprio per chi non se l’aspettava.
La stampa internazionale si è subito accorta che il voto italiano segna una botta d’arresto per l’affermazione delle politiche di austerità, non solo in Italia. La Grecia era presa per il collo e aveva poche chance, ma era chiaro che l’Italia poteva ancora esprimere il proprio dissenso: e così è successo, come tutta Europa già temeva (perché va quasi sempre a finire così, quando quello che si decide a Bruxelles, o a Berlino, passa al vaglio del voto popolare).
Il fastidio, come ho scritto poco sopra, è grande: tanto che probabilmente si esagerano le reali motivazioni di questo voto, che forse erano rivolte ad altro. Ma è un dato che PDL, M5S, Lega, Ingroia e Comunisti, quelle forze cioè che a vario titolo si sono attestate su posizioni contrarie a questo modello di Europa, hanno totalizzato più del 53% dei consensi, mentre centro-sinistra e lista Monti, vale a dire i poli schierati a favore del rispetto dei vincoli di stabilità, si sono fermati al 40%.
A questo punto è chiaro che l’appeal di Monti era molto più ridotto di quello che si volesse far credere (8,3% alla camera, dove si è presentato da solo); ma soprattutto diventa difficile sostenere che gli Italiani capiscono l’austerità, che sono disponibili a “sacrifici” e a “gesti di responsabilità”. Far passare queste misure, d’ora in avanti, porrà un ulteriore problema di legittimità democratica che rischia di appannare ancora di più la già scarsa popolarità di cui godono le politiche del rigore.
Certo non occorrerà ribadire che la democrazia italiana non è perfetta: siamo molto indietro, ad esempio, per libertà di informazione. Questo fattore, se da un lato sembra ridare voce a quanti deprecano il mancato annichilimento elettorale di Berlusconi, dall’altro mette a nudo proprio le contraddizioni di chi ha fatto opposizione fino ad oggi.
La sinistra italiana deve meditare molto sugli errori fatti: e in questi errori rientra sicuramente la mancanza di una legge sul conflitto di interessi e l’accordo di non belligeranza sulle televisioni fatto a suo tempo con Berlusconi (e sempre disfatto da quest’ultimo a suo piacimento). In questo novero rientra a buon diritto anche l’errore strategico di Napolitano e di Bersani di accettare il governo Monti per compiacere l’Europa, anziché andare subito al voto e togliere di mezzo una volta per tutte il Cavaliere. Eppure oggi nulla suona più grossolano della clamorosa incapacità di valutazione nei confronti delle istanze della società civile, da cui è scaturito il fenomeno Grillo.
E’ dall’epoca dei “girotondi”, che una parte sempre più consistente di elettori di centro-sinistra si distacca dal partito, delusa da inciuci, corruzioni, bicamerali e riforme della giustizia. Grillo parte da questo malcontento: ed è solo dopo che vengono i “vaffa-day”. Anziché cercare di capire le ragioni di questa protesta, il ceto dirigente ha preferito chiudersi a riccio. Grillo aveva pur cercato di partecipare alle primarie, ma era stato escluso: e giustamente celebri rimarranno certe dichiarazioni di supponenza degli alti dirigenti. Poi aveva provato a regalare il suo programma al PD, ma senza ottenere ascolto. In tutta risposta verrà anzi accusato di fascismo (quando Mussolini – per la cronaca –, fino a che ci furono libere elezioni, non prese mai nemmeno la metà dei voti di Grillo).
Qual’è il problema di questo partito? Forse lo aveva capito Gaber, quando cantava: “il moralismo è di sinistra, la mancanza di morale è a destra”. La sinistra italiana soffre non solo un problema di classe dirigente, ma soprattutto un problema di identità storica risalente al vuoto ideologico successivo alla caduta del muro di Berlino e al crollo dell’URSS. Per elaborare il lutto gli eredi del PCI si sono autoproclamati difensori dei valori sociali e della cultura: una scelta che si è presto cristallizzata nel moralismo; ma pure nel suo contrario, cioè la peggior realpolitik. D’altronde è questo l’esito della crisi dell’ideologia, della mancanza di una visione politica e storica e del divorzio da un’analisi disincantata della realtà: una serie di principi belli in teoria, ma di difficile applicazione e quindi facilmente abbandonati per le più basse ragioni di bottega.
I dirigenti del partito hanno sempre oscillato tra i due estremi: un’ostentata purezza all’esterno, e il più bieco realismo politico all’interno, nella convinzione di annoverare tra i loro ranghi brillanti strateghi – che infatti si sono puntualmente fatti infinocchiare da Berlusconi (l’unico capace di tenergli testa, Prodi, era un democristiano). Al popolo di sinistra rimane la forte convinzione che “essere di sinistra” significhi sostanzialmente essere per il sociale, pacifisti, aperti, multiculturali, anti-razzisti, collaborativi, rispettosi delle donne, dei diritti degli omosessuali e dell’ambiente. Recentemente si sono aggiunte altre declinazioni specifiche per l’uomo politico: moderatismo, credibilità, serietà e “noi-non-andiamo-a-letto-con-le-minoerenni”.
Tutto molto bello: non c’è dubbio che, se dovessi scegliermi un amico per prendere una pizza fuori e fare quattro chiacchiere, mi sceglierei una persona di questa sorta. Ma la politica ha a che fare anche con la rappresentanza di interessi concreti e con l’aggregazione del consenso. Cose con le quali i dirigenti di sinistra non si vogliono sporcare le mani.
Prendiamo queste elezioni, dove i temi sul tavolo erano essenzialmente tre: 1) tasse; 2) casta; 3) crisi economica, cioè: rapporto con l’Europa. Grillo si è impadronito efficacemente della propaganda anti-Casta e ha messo fortemente in discussione questa Europa. Berlusconi ha capito che doveva seguirlo su questo punto, oltre a battere sul tema della riduzione fiscale (sulla Casta ha giustamente glissato…). E Bersani? Bersani ha dormito.
Ha parlato un po’ di lavoro, che pure è un’esigenza sentita: ma è sempre figlia del problema della crisi e quindi del rapporto con quell’Europa che ci vuole imporre la sua strategia per uscirne. Ma ciò che è più importante, mentre gli altri due provavano a metterci cuore, passione e idee forti (IMU, reddito minimo garantito, referendum sull’euro, eccetera) di Bersani non si ricorda una sola proposta. Non significa che non abbia detto niente: significa solo che non ha detto niente di forte o che rimanga impresso.
Eppure gli erano stati dati diversi suggerimenti: ad esempio dichiarare finalmente Berlusconi ineleggibile (in quanto concessionario pubblico) o proporre una dura riforma della giustizia. Si poteva aggiungere anche, in sede europea, un impegno deciso a spingere affinché la BCE si facesse garante dei debiti degli Stati. Insomma: non è vero che per essere onesti e credibili bisogna rinunciare a slogan efficaci e a temi forti. Ma Bersani ha preferito puntare tutto su un dimesso tema dell’identità: “siamo di sinistra, basta questo”. Stranamente con la crisi che morde a molta gente non è bastato.
Per quanto detto fin qui è evidente che rimpiangere Renzi significa non aver capito nulla. Il sindaco di Firenze è l’incarnazione dell’equivoco della sinistra italiana: quello cioè che dire cose chiare e concrete comporti per forza dire cose di destra.
Renzi ha senza dubbio il pregio di essere più coinciso, diretto, semplice e comprensibile di Bersani; ed inoltre porte idee nuove. Il suo problema è che ha sbagliato partito. La sua faccia pulita farebbe molto bene e restituirebbe credibilità ad una destra che in Italia è compromessa da troppo tempo con la figura di Berlusconi; ma il suo pensiero è in conflitto con la base della sinistra, che in larga parte si richiama ancora ai valori di cui sopra e che Renzi (con finta ingenuità) si propone di “svecchiare”. Il fatto che abbia perso le primarie conferma questa analisi: e tornare indietro sarebbe pericoloso.
Il successo di Grillo sta lì a dimostrare che il connubio tra rifiuto del compromesso e coerenza programmatica paga. Invece che perseverare nel fallimentare progetto politico di coniugare ex-democristiani ed ex-comunisti, il PD dovrebbe decidersi ad una svolta chiara: non certo la svolta verso il centro che molti commentatori “rispettabili” e lo stesso Renzi si augurano, perché lo porterebbe a sovrapporsi alla destra; ma una svolta a sinistra, che riscopra temi quali la questione morale, la laicità dello Stato, la difesa del potere d’acquisto dei lavoratori, i diritti, la Costituzione nata dalla Resistenza, la rete di protezione sociale. Lasciare scoperto questo lato costerebbe al PD un sorpasso del M5S a sinistra e la condanna definitiva all’irrilevanza politica.
Alcuni sostengono che se avesse vinto Renzi, Berlusconi non si sarebbe presentato e la sinistra avrebbe vinto le elezioni (perché è evidente che contro Alfano avrebbe vinto chiunque). Questo ragionamento non tiene però conto di due fattori: 1) Berlusconi è imprevedibile: nessuno può dire se davvero si sarebbe fatto da parte; 2) sarebbe stato l’ennesimo errore strategico, che porta a privilegiare un realismo di corto respiro sacrificando la coerenza: Renzi avrebbe puntato ancora più dichiaratamente ad un’alleanza con Monti, cosa che non è servita di certo a Bersani e che forse avrebbe spinto altri elettori verso la Grillo.
Si dirà: con tutti questi discorsi è passato in secondo piano il fatto che è ricominciata l’altalena delle borse e il dramma dello spread. Eppure si tratta di paure che vanno gestite.
Con uno sguardo laico al problema, che eviti la demonizzazione dello “speculatore”, dovremmo ammettere che i mercati sono fatti per realizzare profitti: se si può guadagnare scommettendo sulle paure legate all’instabilità politica italiana, paure magari del tutto irrazionali (quello della razionalità dei mercati è un dogma che, dopo il 2008, si può considerare sconfitto dalla Storia), i mercati ci proveranno. Il loro lavoro è il guadagno immediato, non il giudizio assoluto sulle politiche di un paese. A questo proposito, anzi, la divulgazione degli instant poll che attribuivano una netta maggioranza al centro-sinistra spingendo al rialzo le borse, salvo poi farle crollare all’emergere dell’evidenza, fanno sorgere più di un sospetto: perché sono queste vertiginose altalene che portano i maggiori guadagni.
Sul lungo periodo, tuttavia, non vedo grosse motivazioni dietro alle ansie dei mercati, se si eccettua la non trascurabile fragilità del settore bancario italiano, legato com’è al sostegno del governo. Si tratta di un problema serio, certo, ma che non comporta per l’Italia nessun rischio default immediato: e questo dovrebbe darci abbastanza respiro per fare con calma i ragionamenti politici dovuti.
Lo spread dal canto suo sappiamo ormai cosa rappresenta: non certo il rischio che l’Italia fallisca, ma quello che esca dall’euro, ripagando così il creditore con una nuova lira svalutata. E’ un meccanismo quasi perverso che ci addossa i costi di un’uscita pur continuando a rimanere dentro. Eppure è la logica a cui ci siamo consegnati, rinunciando alla garanzia di una banca centrale e ponendo le nostre finanze pubbliche e la nostra libertà di autodeterminazione nelle mani del mercato. Ovviamente si può uscirne, e il tempo per prendere questa decisione lo abbiamo.
Nell’immediato abbiamo solo due scenari che possano evitare un ricorso immediato alle urne (che riproporrebbe solo la situazione esistente).
La prima soluzione è l’unica possibile, se pensiamo davvero che il problema sia il fatto di aver scandalizzato il mondo per non esserci liberati di Berlusconi: una coalizione a termine in cui il centro-sinistra si allea a Grillo. Gli obiettivi di questa operazione sono: 1) ineleggibilità di Berlusconi, 2) legge elettorale, 3) elezione di un Presidente della Repubblica (un buon compromesso potrebbe essere Stefano Rodotà). Si tratta di un’opzione ampiamente praticabile, che metterebbe fine a Berlusconi e rimanderebbe di qualche mese una competizione elettorale a cui affidare la formazione di un chiaro governo politico del paese.
La seconda soluzione, invece, è il “governissimo” PD+PDL+Monti. Si tratta di un’ipotesi meno improbabile di quello che si pensi, tant’è che l’estabilishment moderato ha già cominciato a caldeggiarla. Come si può giustificare un simile abominio politico? Esattamente allo stesso modo in cui si è giustificato il governo Monti: a colpi di spread, in un clima di supposta emergenza e in nome delle fantomatiche riforme. Di certo Berlusconi non aspetta altro: dietro garanzia dei soliti salvacondotti, ritornerà anzi più europeista di prima. Tutto dipende in realtà da quanto le diplomazie del nord Europa riterranno sensato spingere ancora per questa soluzione fallimentare; e ovviamente dalla propensione del PD al suicidio finale.
Andrea Giannini