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"Al concorso esterno ormai non crede più nessuno", le parole del procuratore Iacovello sono un grido d'allarme per la nostra società civile
Venerdì poteva andare in scena l’atto finale del processo Dell’Utri. Dopo una prima condanna a 9 anni, e una seconda in appello a 7, il senatore del PDL, fondatore di Forza Italia e braccio destro storico del Cavalier Silvio Berlusconi al terzo e ultimo grado di giudizio rischiava davvero di finire in carcere per lungo tempo. Per sua fortuna così non è stato. La Corte di Cassazione ha annullato il processo d’appello (le motivazioni si sapranno più avanti), che dovrà quindi essere ripetuto; sempre che a chiudere definitivamente il sipario non intervenga prima il termine di prescrizione del reato, che scade nel 2014. Il rischio di un ennesimo processo sfumato nel nulla è concreto. Pertanto si può ben dire che Dell’Utri si è conquistato buone chances di scamparla.
E a confortarlo ha contribuito anche il mutato clima generale, che in poche ore si è fatto particolarmente favorevole alla sua causa. Il sostituto procuratore Iacoviello, infatti, proprio nella requisitoria finale, dove era chiamato a esprimere il suo parere circa l’accoglimento o il rigetto dei ricorsi, ha proposto di respingere il ricorso dell’accusa e di accogliere quello della difesa; ed è poi andato ben al di là, sostenendo addirittura che «al concorso esterno ormai non crede più nessuno» e spiazzando così persino gli avvocati di Dell’Utri, che non si sarebbero potuti augurare di meglio. L’opinione pubblica e la politica si sono subito accodate, con dichiarazioni contro il concorso esterno provenienti in modo trasversale sia da ambienti di destra che da ambienti di sinistra.
Ora, che il braccio destro di Berlusconi si salvi o vada in carcere, è un fatto certamente rilevante per la vita politica italiana. Eppure, in fin dei conti, il comune cittadino potrebbe anche disinteressarsi tranquillamente della vicenda e vivere tranquillo. Invece sarebbe molto grave ed inquietante, se questo processo diventasse l’occasione per mettere in discussione il concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratterebbe un campanello d’allarme di degenerazione contro cui la società civile dovrebbe reagire compatta. Di questo reato è stato detto di tutto e di più: che è vago e ambiguo, che non esiste nel codice penale, che siamo l’unico paese del mondo ad averlo, e via dicendo.
Non mi interessa qui entrare nel merito di queste accuse, che sono state già smontate ripetutamente da persone ben più preparate di me. Basti dire che il concorso esterno in associazione mafiosa ha già portato in carcere molte persone e che è stato definito per la prima volta nel processo maxi-ter a Cosa Nostra da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: due che forse di reati di mafia ne sapevano di più del PG Iacoviello, che lavora a Ravenna. Ma soprattutto è stato bene specificato e circoscritto dalla Cassazione.
Molto semplicemente è il reato commesso da chi aiuta e favorisce un’organizzazione criminale di stampo mafioso pur non facendone parte. Quando l’aiuto è episodico, il pubblico ministero contesta il reato di “favoreggiamento”; quando è continuativo si contesta il “concorso esterno”. E’ quindi facilissimo capire per quali categorie sia stato disegnato questo reato: i colletti bianchi.
Tutti i magistrati, da Castelli ad Ingroia, che si sono occupati di combattere le associazioni criminali sanno benissimo che senza un’arma giudiziaria per punire chi si mette “a disposizione”, le possibilità di estirpare il fenomeno mafioso sono prossime allo zero. Catturato un boss, se ne fa un altro: ma Falcone e Borsellino hanno insegnato che la mafia non può sopravvivere senza imprenditori insospettabili che ne riciclino il denaro sporco, senza medici che ne curino i feriti, senza avvocati che li difendano, senza funzionari pubblici che olino la macchina burocratica e senza politici che garantiscano gli appalti. Il fine della mafia non è uccidere. Uccidere è il mezzo che la mafia usa, di tanto in tanto, per il vero scopo della sua esistenza: accumulare denaro e potere. Senza chi aiuta la mafia dall’esterno, questo fine non è raggiungibile. Per questo Falcone era diventato il simbolo da colpire.
Giusto la settimana scorsa la procura di Caltanissetta ha messo nero su bianco che anche Borsellino fece la fine del suo migliore amico perché aveva scoperto che lo Stato stava trattando con i Corleonesi e si era opposto. Ieri la procura di Firenze, nelle motivazioni della sentenza di condanna del boss Tagliavia, ha scritto che nel ’92-’93 una trattativa tra mafia e istituzioni «indubbiamente ci fu».
Per questo proprio oggi il fatto che quasi tutta la politica trasversalmente metta in discussione il concorso esterno deve suonarci come una minaccia. Una grossa parte della crisi economica che viviamo si deve anche alle mafie, che nel loro complesso, secondo le stime raccolte da Nunzia Penelope, pesano per il 10% del PIL nazionale. Perché mai dovremmo sbarazzarci di un reato che serve proprio a colpire il cuore dell’economia illegale mafiosa?
E’ vero che la politica è un’arte difficile, perché non basta fare la cosa giusta, ma comporta trovare accordi su interessi spesso divergenti. E in democrazia è normale e legittimo che ci siano interessi opposti. Ma diciamo le cose come stanno: quali possono essere gli interessi di chi non vuole il concorso esterno in associazione mafiosa? Un sostituto PG può anche prendersi la libertà di fare fini disquisizioni di diritto: in fin dei conti la giurisprudenza è il suo mestiere. Ma a noi, e ai politici che ci rappresentano, dovrebbe interessare solo che si colpisca la mafia duramente.
L’unico motivo accettabile per modificare o abolire il concorso esterno sarebbe quello di sostituirlo con una fattispecie di reato ancora più dura e penalizzante degli interessi mafiosi. E invece le dichiarazioni che ha rilasciato, ad esempio, un ex-presidente della Commissione Antimafia come Violante (PD) sembrano andare nella direzione di un ammorbidimento. Che senso può avere questo tipo di propaganda politica? Se a pensare male spesso ci si azzecca, l’unica spiegazione è che i nostri attuali politici sappiano benissimo che nei loro partiti ci sono colleghi e amministratori che fanno accordi con le mafie; e piuttosto che fare i conti con questa verità, che rivolterebbe il paese, preferiscono azzoppare gli strumenti di indagine della magistratura per impedirle di indagare nella zona grigia dei rapporti tra mafia, società civile e Stato.
Tutto questo nel silenzio tombale del governo Monti, che preferisce non addentrarsi in questi spinosissimi terreni. Eppure ci sono scarse alternative: se la terra è tonda, se le guardie sono i buoni e i ladri sono i cattivi, se non voteremo mai per chi vorrebbe abolire il reato di omicidio, perché penseremmo che difende gli assassini, per quale motivo qualcuno dovrebbe voler indebolire un reato che colpisce chi presta aiuto alla mafia? O è disinformato, oppure è compromesso.
Andrea Giannini