Chiunque può rendersi conto che questa retorica del fare ha almeno due punti pericolosi: inibisce la discussione sul che cosa fare e elimina il confronto democratico, rendendo pleonastica ogni istituzione politica
La propaganda renziana a base di “rinnovamento”, “fare”, “compattezza” e altre rassicuranti formulette suggerite dagli spin doctor è ormai diventata il basso continuo della pagina politica e non costituisce più una novità; nemmeno quando viene utilizzata per cacciare gli oppositori interni o per costringere i dipendenti pubblici a trasferirsi a 100 km di distanza. Eppure, proprio per via della facilità con cui ci stiamo assuefacendo a queste argomentazioni, è giunto il momento di spendervi due parole.
Innanzitutto occorre notare come le difese immunitarie degli italiani si siano molto abbassate negli ultimi vent’anni, a causa evidentemente di una martellante propaganda bipartisan, dello sfilacciamento di valori, ideologie e paradigmi culturali, della stanchezza e dello stordimento causati dalla crisi economica: tutte cose che nell’insieme ci hanno resi molto più vulnerabili ai condizionamenti della pubblicistica governativa e meno preparati a filtrarli con autonomia e senso critico.
Questo spiegherebbe – senza ricorrere a quella sorta di “auto-razzismo” che va molto di moda tra i nostri commentatori – come mai un premier privo di qualsivoglia distinzione qualitativa e dal linguaggio politico insulso possa riuscire a esercitare un fascino reale in una parte comunque troppo vasta dell’elettorato; una parte, per giunta, che aveva costruito l’opposizione a Berlusconi proprio rivendicando – almeno in teoria – una differente concezione della dirigenza di partito e dell’apertura al dibattito pubblico.
È difficile capire, altrimenti, come quelle stesse persone oggi possano giustificare il decisionismo estremo di Matteo Renzi, che arriva al punto di dichiarare: «Contano più i voti degli italiani che il diritto di veto di qualche politico». La frase è talmente grave che, seppure con toni blandi, è stata stigmatizzata persino da Stefano Folli sulla radio di Confindustria (che certamente non può essere sospettata di essere contro le mitiche “riforme”). Il fatto è che il motivo è sempre lo stesso: se i sindacati obbiettano qualcosa, allora “fanno resistenza corporativa”; se Minneo suggerisce qualche cambiamento alla riforma del Senato, allora “mina la compattezza” e “impedisce di fare squadra”; se chiunque richiede semplicemente un po’ più di riflessione, allora “sono vent’anni che si discute, ora bisogna fare” perché: «Le riforme non si annunciano, si fanno». Ma chiunque può rendersi conto che questa retorica del fare ha almeno due punti pericolosi: inibisce la discussione sul che cosa fare e elimina il confronto democratico, rendendo pleonastica ogni istituzione politica.
Sul primo punto non facciamoci ingannare. Certo, il paese richiede molti aggiustamenti – altrimenti, banalmente, andrebbe già bene così com’è – ed è vero che da vent’anni sentiamo parlare di un certo tipo di ricetta (maggiore potere agli esecutivi, diminuzione delle tutele, snellimento della burocrazia, liberalizzazioni, eccetera): ma questo basta a dare per scontato che stiamo parlando della ricetta giusta? Joseph Goebbels disse: «Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diverrà una verità». E il fatto che non siamo nella Germania degli anni ’30 non basta certo a rendere inattuabile la strategia del Ministro della Propaganda del Terzo Reich: è sufficiente anzi una minima influenza su giornali e televisioni per rendere convincente un’ideologia piuttosto che un’altra.
D’altra parte – e veniamo al secondo punto – che razza d’idea della democrazia è quella dove il Parlamento è chiamato a ratificare quello che “si sa già” essere giusto? Ognuno può avere legittimamente la sua opinione, esserne profondamente convinto e difenderla con vigore: ma deve sapere che la decisione finale va presa passando per le istituzioni, che sono fatte apposta per rappresentare e comporre i diversi punti di vista, non solo per starli ad ascoltare come sembra credere Renzi quando sentenzia: «Ascoltiamo tutti, ma poi decidiamo noi». In quale parte della Costituzione sta scritto che è il governo a “decidere”? A meno che Renzi non si ritenga “investito dal popolo” per via del 40% preso alle Europee: ma è un argomento talmente berlusconiano che mi rifiuto di prenderlo in considerazione.
Il fatto che le critiche al premier comincino ad arrivare anche da una parte dell’establishment non è casuale. Le forzature vanno bene fintanto che servono a disinnescare l’opposizione. Ma non bisogna dimenticare che siamo sempre in democrazia; e se vogliamo che il gioco continui, Renzi non deve tirare troppo la corda: perché cosa ne sarà poi del “cammino delle riforme”, se la corda si spezza?
Andrea Giannini