Sconfiggere la golosità è possibile, è una ricerca medica della Washington University a spiegarci come si può aggirare il desiderio di
Guardi sconfortato il “salvagente” naturale che ballonzola sui tuoi fianchi ad ogni passo e che, per consolarti, qualcuno chiama le maniglie dell’amore o quell’odioso accumulo di adipe che aggetta, come un balcone senza fiori, dal tuo corpo e ti impedisce di vedere dove metti i piedi od ancora spii, con malcelata indifferenza, l’impeccabile silhouette degli archetipi taglia “slim” con un senso di colpa degno dei più lacrimevoli coccodrilli? Coraggio, è in arrivo una buona notizia che, se non toglie un etto alla tua figura effetto balena, allontana da te il fio della colpa.
Uno studio della Washington University School of Medicine, pubblicato sul Journal of Lipid Research, ha stabilito la nostra incolpevole tendenza alla golosità, liberandoci dal girone infernale in cui il nostro sommo padre Dante ci ha relegato. Secondo questo rigoroso studio scientifico, alcuni di noi (direi tanti, il 20%) avrebbero una variante ipoattiva di un “molesto” gene che ci fa alzare dal desco, insoddisfatti, anche dopo un pasto pantagruelico.
Come ogni prodotto genico, la proteina trascritta, chiamata CD36, delegata a metabolizzare i grassi, essendo presente in quantità insufficiente, non permetterebbe ai recettori gustativi di raggiungere quel grado di “soddisfazione” tale da impedire un’ulteriore richiesta di cibo. Come insegna l’anatomia, l’organo del gusto è sito nell’apparato buccale, in particolar modo sulla lingua, dove organuli sensoriali, presenti nelle papille gustative, hanno il compito di farci percepire sapori come il dolce, il salato, l’amaro o l’acido.
A questi 4 capisaldi, il giapponese Kikunae Ikeda, già dal 1908, aveva aggiunto un 5 gusto, l’umami, che si coglie mangiando cibi ricchi di proteine grazie alla presenza di composti simili al glutammato monosodico (eccipiente prevalente nel dado da brodo).
I ricercatori di questo curioso lavoro, avrebbero scoperto, adesso, la presenza di un ulteriore recettore capace di individuare il “fat”. La mancanza di un apporto di lipidi sufficiente, o ritenuto tale da un sistema anomalo, stimola la richiesta compensatoria di altri alimenti che, paradossalmente, innescano il cosiddetto meccanismo di feedback e cioè: più cibo introduciamo, più viene inibita la produzione della proteina incriminata, più i recettori percepiscono la mancanza di grassi, più diventiamo famelici, innescando un diabolico circolo vizioso che ci conduce inevitabilmente alla condizione di obesi.
L’esperimento, che ha portato a queste conclusioni, è stato condotto su 21 volontari, con indice di massa corporea Bmi (Body Mass Index) uguale o maggiore a 30, tutti valori rientranti nel “sovrappeso”, a cui è stato chiesto di assaggiare liquidi diversi e valutarne il sapore. E’ emerso che la presenza di acido oleico e linoleico propri dell’olio di oliva o i “flavour” dei latte, anche in concentrazioni molto basse, vengono avvertite in modo molto dissimile proprio in funzione della “bontà” del sistema deputato al metabolismo di queste sostanze. In base alla variante genica della proteina CD36, infatti, che si identifica in tre classi definite “iperattiva”, “pigra” e intermedia, si è potuto accertare che la percezione del “grasso” era 8 volte superiore negli individui con un dinamismo enzimatico iperfunzionante rispetto ad uno con scarsa attività.
Aver chiarito questo aspetto dell’alimentazione, è un indubbio aiuto ai medici nutrizionisti per la gestione dell’obesità ma, soprattutto, è un incentivo per le industrie di generi commestibili ad indirizzarsi alla realizzazione di prodotti dedicati. L’obiettivo sarebbe quello di “Ingannare” l’organismo in modo di soddisfare la “voglia” senza incrementare l’apporto calorico in modo analogo, ad esempio, alla strategia operata dal dolcificante nei confronti dello zucchero. In attesa di alzarci dalla tavola sazi e felici, non ci rimane, per ora, che una sana e salutare dieta e tanto benefico esercizio fisico.
Adriana Morando