Il pensiero unico è il monopolio del dibattito e si subisce soprattutto sulle questioni che richiederebbero conoscenze specifiche. Il vincolo esterno è il limite all'autonomia decisionale imposto da circostanze esterne considerate ineluttabili
Ancora nel mio ultimo articolo criticavo l’imperante logica del “vincolo esterno” e quella del “pensiero unico”. Vediamo di precisare meglio queste definizioni, dato che ormai stanno prendendo il loro posto nel linguaggio politico.
Il vincolismo in politica si può definire come il limite all’autonomia decisionale imposto da circostanze esterne considerate ineluttabili. In altri termini: “volevamo tanto fare quella tal cosa”, “avevamo in effetti detto che avremmo preso quel tal altro provvedimento”, “fosse solo per noi, non avremmo desiderato altro”… MA, e qui la lista delle possibili scuse inderogabili è lunga: il minimo comune denominatore, però, è sempre che si tratta di qualcosa di esterno, qualcosa cioè su cui le istituzioni nazionali non hanno giurisprudenza; su cui politica e parti sociali non possono incidere, ma che possono solo riconoscere e rispetto alle quali devono solo adeguarsi.
Negli anni ’90 andava molto di moda: “è la globalizzazione”, che più recentemente si tende a declinare anche con: “oggi c’è la Cina”; da cui a sua volta segue come corollario: “non possiamo pensare di competere con le vecchie regole, i vecchi rapporti di lavoro sono sorpassati”, eccetera eccetera. A cavallo del secondo millennio è cominciato a circolare un altro mantra: “ce lo chiede l’Europa”. Cosa fosse questa “Europa”, chi fossero esattamente questi “Europei” che ci chiedevano di adeguarci e perché, poi, ce lo chiedessero non si è mai capito bene; ma mentre si pronunciavano queste parole solenni (“ce lo chiede l’Europa”) sembrava quasi di sentire risuonare i versi immortali di Schiller: «Freude, schöner Götterfunken, Tochter aus Elysium», che si spandevano nell’aere sulle note di Beethoven: e questionare sarebbe apparso quasi un atto di hybris. Eppure, non so voi, ma io da piccolo, quando venivo beccato a fare una marachella e tentavo di giustificarmi dicendo: “l’ha fatto anche il mio compagno!”, venivo tacitato così: “se il tuo compagno si butta sotto un treno, ti ci butti anche tu?”. Ma, curiosamente, è proprio quello che abbiamo fatto: ci siamo buttati sotto un treno esattamente per il motivo che lo facevano anche gli altri (i quali non erano poi così intelligenti, come oggi è piuttosto evidente).
Più recentemente siamo passati al linguaggio economico: “abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi”, “il responso dei mercati” ed infine, in un crescendo rossiniano, ecco il principe di tutti i vincoli esterni: lo spread. Niente è più concreto, più chiaro, più incontestabile dello spread, perché ha dalla sua tutta la scientificità, l’oggettività e la potenza del “numero”: e più quel numero va su, più noi paghiamo di interessi in termini di miliardi di euro. Come si può negare o sminuire questa evidenza? E infatti non si può. Il Sole 24 Ore, a fine 2011, titolava a tutta pagina: “Fate presto!”; tutta Italia andava in fibrillazione seguendo le ultime notizie dalla borsa; e persino io, che ora faccio ironia, all’epoca sovrastimavo l’emergenza e ne perdevo di vista il contesto. Certo lo spread è reale e non dipende (fino a prova contraria) da un complotto della “finanza speculativa” (che – per inciso – è una definizione piuttosto bizzarra, come “pesce nuotante” o “uccello volante”). Tuttavia mancano un paio di dettagli: non ci si ricorda da dove nacque l’emergenza e soprattutto non si dice se esiste un’alternativa alla dittatura dei mercati.
A proposito di dove nasce l’emergenza ne abbiamo già discusso: non fu certo perché si scoprì che in Italia c’era il debito pubblico (sai la novità!), ma perché venne fuori che la Grecia era nei guai e che la banca centrale europea, fedele agli altolà di Berlino, non si sarebbe impegnata a garantire i debiti nazionali, limitandosi ad acquisti mirati e attenendosi esclusivamente al contenimento dell’inflazione, che costituisce il suo mandato. Di colpo i titoli di Stato della zona euro cessarono di essere considerati un rendimento sicuro: e il resto è storia nota. Anche per quel che riguarda le alternative, almeno incidentalmente, ne ho già parlato quando mi sono occupato dell’euro, mostrando che, in effetti, altre possibilità ce n’erano: solo che non andavano di moda. Ed è qui che andiamo ad incrociare l’altro tema in questione.
Il pensiero unico è il monopolio del dibattito giustificato da una pretesa di necessità ed auto-evidenza. Consiste nel presentare un punto di vista del tutto parziale e opinabile come se fosse una conquista dell’umanità del tutto fuori discussione, mentre “il resto è noia”, eccentricità, idealismo o forse anche peggio. Si tratta, insomma, di una tecnica di condizionamento tra le più subdole, perché mira a convincere della necessità di una certa soluzione insinuandola tra le pieghe di quello che si da per scontato.
Il pensiero unico si subisce soprattutto sulle questioni che richiederebbero conoscenze specifiche. Non essendo possibile, infatti, che ogni individuo sia esperto su tutto lo scibile umano, quando si parla di economia, finanza, giustizia, energia, ma anche politica, è molto difficile entrare nel merito, ed è dunque inevitabile che si vada alla ricerca del parere altrui. Il senso comune suggerisce di dare fiducia a chi appare più competente e lontano da interessi di parte; e la prudenza suggerisce di diffidare degli eccessi per tenersi sulla linea della maggioranza: non solo per via dell’idea che se molti pensano la stessa cosa, ci sono più probabilità che questa cosa sia vera, ma soprattutto per via del fatto che sbagliare con gli altri è meno pericoloso che avere ragioni da soli. Il problema è che oggigiorno queste dinamiche di formazione del consenso sono piuttosto note: e sfruttarle a proprio vantaggio è molto più facile di quello che sembra.
Prendiamo come esempio il tema delle fantomatiche “riforme”. In Italia se ne parla da talmente tanti anni che ormai, quando si tocca l’argomento, tutti si dicono d’accordo. Tuttavia ciò non dipende dall’intrinseca bontà dell’argomento (valutazione di merito), ma da una banale tautologia: vale a dire, che è ovvio che se le cose non vanno bene, allora vanno cambiate o riformate. Ma il problema è un altro: riformare come? Il trucco sta nel lasciare questa questione sospesa tra il detto e il non detto.
Se da un lato, infatti, non è un mistero quali “riforme” abbiano in mente gran parte di quelli che se ne riempono la bocca, dall’altro è evidente che, potendo, si guardano bene dall’esplicitarle: perché se si esprimessero chiaramente, non riscuoterebbero propriamente un grande successo. Molto meglio buttare lì l’idea, dare il tempo alla gente di abituarsi, continuare a parlarne come della cosa più razionale e pacifica del mondo, e poi, quando finalmente arriva l’occasione (cioè l’emergenza), invocarne l’adozione come il rimedio a lungo agognato.
E’ già successo con il governo Monti. A una crisi finanziaria di credito privato si è risposto con i vecchi cavalli di battaglia del liberismo, cioè vincolando le finanze pubbliche al pareggio di bilancio, al taglio del debito (fiscal-compact) e a un limite di deficit (six-pack). E’ stata innalzata l’età pensionabile (riforma delle pensioni) e si è facilitato il licenziamento (riforma del lavoro). E quando è stato necessario addirittura modificare la Costituzione (riforma costituzionale), lo si è fatto senza alcun dibattito pubblico, sempre nella logica dell’emergenza e con la scusa che occorresse lasciare lavorare i molto competenti “tecnici”. I quali sono dipinti un po’ come “scienziati”; e in quanto tali – si presume – sapranno quello che va fatto esattamente come i tecnici di C.S.I. sanno ricavare dalla scena di un delitto il DNA dell’assassino. Ma la realtà è molto più sfumata. L’economia non è la matematica: c’è sempre spazio per le opinioni. E le opinioni possono celare precisi interessi.
Nessuna pretesa “scientificità” o profondità di esperienza può giustificare il pensiero unico. Al contrario, forse mai come in questi ultimi anni la discussione economica si è vivacizzata. Dal 2008 in particolare i “rapporti di forza” nel mondo accademico hanno cominciato a mutare e il pensiero liberista, che per trent’anni aveva pesantemente condizionato il dibattito, è entrato decisamente in crisi; tanto che oggi si contesta apertamente quelli che fino a pochi anni prima erano considerati dogmi inappellabili: una rigorosa disciplina di bilancio, l’indipendenza delle banche centrali, la primaria necessità della lotta a spesa, debito pubblico e inflazione, la libera circolazione dei capitali, la deregolamentazione finanziaria, l’efficienza del settore privato, la liberalizzazione indiscriminata, l’arretramento del pubblico e il superamento dello Stato sociale.
Più in generale è in discussione la filosofia stessa del liberismo, cioè l’idea che se ciascuno persegue il proprio guadagno personale, alla fine, “come guidato da una mano invisibile” contribuisce a disegnare una società più ricca e felice. In realtà – sostengono molti autorevoli economisti e premi nobel – se la famosa “mano invisibile” teorizzata da Adam Smith non si vede (perché constatiamo che si producono sempre più crisi e più disuguaglianze), ciò non si deve al fatto che è invisibile, ma al fatto che non esiste.
Di qui la necessità di intervenire per imporre il diritto sopra il mercato, rivalutando il ruolo dello Stato, lo stimolo della spesa pubblica e le reti di protezione sociale. Di qui critiche anche radicali al liberismo, visto come giustificazione teorica al problema della compatibilità sociale del perseguimento individuale della ricchezza. Di qui la necessità di rivedere il paradigma di questo capitalismo socialmente instabile ed intrinsecamente insostenibile, perché squilibrato a vantaggio delle società più forti e basato su un ideale di crescita infinita, quando le risorse a disposizione sono limitate.
Ovviamente l’eco di questo dibattito in Italia non si è ancora sentita. E’ anche per questo che ci sembra così sensato il richiamo al dialogo e al compromesso: perché ormai è passata l’idea che il confronto ideologico sia morto, che non sia più necessario dividersi, perché quello che si deve fare già si sa, e che quindi, nel mondo del terzo millennio, non ci siano più interessi in contrapposizione. Ma è un’ipocrisia colossale.
Negli Stati Uniti (tanto per fare un esempio) è ben chiaro ciò che distingue un repubblicano, che è a favore di un minore intervento statale e minore spesa pubblica, da un democratico, che invece vuole più tutele e più investimenti da parte dello Stato. E benché non manchino occasioni di convergenza (ci mancherebbe altro), la normale logica è che ogni partito difende le sue idee e cerca di farle prevalere: occasionalmente sacrifica qualcosa, ma non può sacrificare tutto sempre. Perché le idee di un partito rappresentano interessi: e sacrificarle significa cedere a interessi di altri, che possono essere in contrasto con i miei. Gli interessi delle potenze mondiali non sono gli interessi dei paesi poveri; gli interessi di un gruppo finanziario non sono gli interessi di un operaio edile; gli interessi miei non coincidono con quelli che saranno gli interessi dei miei nipoti; e gli interessi del ladro non sono gli interessi del derubato.
Da tutto questo discorso segue la necessità di non adeguarsi passivamente ai messaggi provenienti dall’informazione mainstream, perché in un dibattito pubblico (nel complesso) di scarsa qualità ci sono modi sicuri e collaudati per far passare un’idea di parte ammantandola nella veste del buon senso, del realismo e del pragmatismo.
Andrea Giannini
PENSIERI UNICI
Il pensiero unico e’ manifesto nei mass media ( e dall’ editoria di sistema) in modo ossessivo,fino a ridurre all’ obbedienza,alla complicita’
all’ imitazione e giustificazione dei modelli nefasti. I ricchi sui poveri,i disonesti su gli onesti,i carn fici sulle vittime,i rappresentati del Popolo sul Popolo , e via dicendo. Non se ne esce piu’ . Viviamo regimi e dittature spacciati per buona,etica democrazia.
Giornali,telegiornali. Talk show,im primis. Tdi tanto in tanto una partita di calcio e ululanti aggressive tifoserie. Ma esiste pure la brava gente. Verrebbe da riderne se non venisse da piangerne. E’ tragico questo perverso condizionare di menti,interi popoli sono plagiati. Condizionare la gente,entrargli nelle menti, plagiarle,intimidirle o terririzzarle ..con astuta e perversa metodologia
( da psicologia e condizionamento ,di massa) .
Fa parte della strategia del potere e del contenimento da potere. NON Il potere della vera democrazia,ma quello dell’ uomo sull’ uomo.
Il ‘ pensiero unico ‘ non nasce dal nulla . Ottenere la sudditanza e/o la complicita’ ,e ‘ il fine .