Si può riformare il mercato del lavoro rendendolo più flessibile senza finire tutti precari? È possibile colmare il gap che ci separa dai paesi più avanzati d'Europa?
Vi ricordate quando, alcuni mesi fa, il presidente del consiglio Monti ha pronunciato la frase “Che monotonia un posto fisso per tutta la vita!”? A seguito di questa affermazione vi sono state aspre polemiche e purtroppo non si è colta l’occasione di approfondire un tema cruciale per il futuro di questo paese: la flessibilità del mercato del lavoro. Non c’è da stupirsi se molti, soprattutto tra i più giovani, si mettano sulla difensiva quando si parla di questo argomento. E ne hanno ben donde: quella che in Italia è stata spacciata per flessibilità altro non è che precarietà e la riforma del lavoro del ministro Fornero, che prometteva di mettere fine alle storture di questo sistema, si è rivelata essere il classico compromesso all’italiana. Ma è davvero possibile riformare il mercato del lavoro rendendolo più flessibile senza renderci tutti precari? È possibile colmare il gap che ci separa dai paesi più avanzati d’Europa?
Innanzitutto vediamo che differenze ci sono tra noi e il resto d’Europa. L’ordinamento italiano, soprattutto prima della riforma Fornero, è basato sulla cosiddetta property rule, cioè si tende a salvaguardare l’inamovibilità del lavoratore dal proprio posto di lavoro. Negli altri paesi europei, soprattutto in quelli più avanzati come quelli scandinavi, l’ordinamento prevalente è quello basato sulla cosiddetta liability rule: si tende a proteggere la sicurezza economica e professionale di chi deve cercare una nuova occupazione, ma non la sua inamovibilità. In poche parole in Italia è molto difficile licenziare ma, una volta perso il lavoro, si è poco tutelati, mentre in altri paesi è più facile licenziare ma, una volta senza occupazione, si può contare su una vasta serie di tutele da parte dello Stato. Questo modello che coniuga flessibilità e tutele per il lavoratore è chiamato flexicurity ed il paese che meglio ha interpretato questo modello è la Danimarca.
In Danimarca, a chi perde il lavoro, lo Stato eroga un sussidio di disoccupazione che può arrivare fino al 90% dell’ultimo salario ma fino a un tetto massimo di circa duemila euro. La durata di questo sussidio fino ad oggi è stata di quattro anni, ma dal 2013 sarà di non più di 24 mesi. Le politiche attive del lavoro, cioè quelle che nel nostro paese dovrebbero essere svolte dai centri per l’impiego, giocano in Danimarca un ruolo fondamentale. I “centri per l’impiego” danesi svolgono veramente il ruolo di facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Questo obiettivo viene perseguito aiutando chi cerca di entrare (o rientrare) nel mondo del lavoro tramite politiche di orientamento e corsi di formazione continua che hanno lo scopo di rendere la propria figura più appetibile sul mercato del lavoro. Un cittadino danese, nel corso della propria vita lavorativa, può cambiare azienda o settore anche sette o otto volte e la cosa più importante è che non esistono lavoratori di serie A e di serie B. Tutti sono garantiti allo stesso modo. In Danimarca il posto fisso è veramente monotono ma solo perché si è sicuri che perso un lavoro se ne troverà un altro in breve tempo.
Un sistema del genere può funzionare solo sulla base di un’ enorme fiducia reciproca tra le parti sociali, cosa che sicuramente manca nel nostro paese. Dare la possibilità di licenziare più facilmente, se non gestita correttamente, potrebbe portare a situazioni ricattatorie ancora peggiori di quelle vissute oggigiorno dai lavoratori precari. Questa fiducia si costruisce con il tempo, infatti il modello danese affonda le sue radici nel cosiddetto “accordo di Settembre” siglato dalle parti sociali addirittura nel 1899.
Recuperare più cento anni di ritardo non è certo un’impresa facile ma c’è chi, nonostante questo, sta cercando di portare avanti queste idee: sia il “contratto unico” proposto dagli economisti Boeri e Garibaldi sia il disegno di legge presentato dal senatore Ichino sono valide proposte che però sono state ignorate dall’attuale governo.
Il “contratto unico” prevede che tutti i contratti di nuova stipulazione siano a tempo indeterminato caratterizzati da una fase di inserimento e una di stabilità. Durante la fase di inserimento che dura fino a tre anni il licenziamento può avvenire solo dietro compensazione monetaria e alla fine di essa le tutele relative al licenziamento sono quelle dell’articolo 18 (pre-riforma Fornero). Il disegno di legge del senatore Ichino, ispirato alla flexicurity danese, prevede anch’esso che tutti i nuovi contratti siano a tempo indeterminato ma con la possibilità di licenziare il lavoratore per motivazioni economiche risarcendolo con un indennizzo. Il trattamento di disoccupazione ammonterebbe a al 90% dell’ultima retribuzione (con il tetto di 3000 euro al mese); l’80% il secondo anno e il 70% il terzo. Parte di quest’indennizzo sarebbe pagato dall’azienda che sarebbe perciò incentivata ad attivare delle politiche efficaci di ricollocamento per consentire al lavoratore di trovare una nuova occupazione il più presto possibile.
Troppo poco è stato fatto da questo governo riguardo a questi temi e questo non fa altro che alimentare il pregiudizio di chi non vuole neanche sentire la parola “flessibilità”. Fino a che esisterà l’apartheid nel mondo del lavoro tra precari e lavoratori a tempo indeterminato sarebbe meglio fare più attenzione prima di definire “monotono” qualcosa che per molti è purtroppo solo un miraggio.
Giorgio Avanzino
[foto di Diego Arbore]
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