E' in questa inedita “condizione giovanile” che si farà strada nei primi anni 60, diffondendosi a macchia d’olio, una sensibilità e un pensiero critici, nei confronti del “mondo dei padri”
Partendo dalla constatazione che negli ultimi 15 anni (almeno) si lamenta la mancanza di una espressione musicale che riesca a risultare effettivamente rappresentativa di questi ultimi anni. In questa rubrica si cerca di ragionare intorno alle profonde motivazioni che rendono una forma musicale epocalmente rappresentativa. Per far questo occorre abbandonare il terreno specificamente musicale. Prendendo come esempio gli anni ‘60/’70, nel tentativo di comprenderne il grande slancio ricreativo e innovativo musicale, abbiamo indagato le vicende, i contesti storico-sociali in cui quelle energie creative hanno iniziato a muoversi. E d’altra parte la comprensione dei fatti musicali (e culturali) la si coglie pienamente solo se si inseriscono quelle particolari modalità del “fare musica” nel vivo delle relazioni storiche.
Nella precedente uscita abbiamo visto come sul finire degli anni 50 iniziasse a serpeggiare un sentimento di ribellione. Ciò che immediatamente salta agli occhi è il soggetto sociale protagonista di questi fermenti e “disturbi” sociali: i giovani.
“Giovani”, una categoria, una componente della società che fino alla prima metà del ‘900 non esisteva, dal punto di vista sociologico. La condizione di “essere giovani” esprimeva, nella concreta presenza corporea, un semplice dato anagrafico. Certo, è sempre esistita tutta una letteratura, anche poetica, sugli anni della gioventù, sulla spensieratezza, i palpiti e gli slanci amorosi ecc… ma nulla di tutto questo assomiglierà a ciò di cui si inizierà a parlare, diffusamente, soprattutto a partire dall’inizio degli anni ’60 (almeno in Italia). Fino ad allora i giovani non erano protagonisti, in senso sociale, non facevano sentire la loro voce e non erano considerati interlocutori. Semplicemente erano a carico della società e/o della famiglia e, in linea di massima, ne seguivano/subivano la tradizione, praticamente immobilizzati nel contesto/classe sociale a cui appartenevano.
Questo secolare modello (che già con le rivoluzioni borghesi dei secoli scorsi aveva allargato le proprie maglie) saltò sotto le spinte di profondi cambiamenti e sconvolgimenti sociali: da un lato le classi lavoratrici che chiedevano pane e lavoro- ma anche istruzioni e diritti- mosse dalla speranza di un futuro migliore che la rivoluzione russa aveva reso possibile; dall’altro, le innovazioni tecnologiche e le esigenze dei nuovi processi produttivi che richiedevano una manodopera non più analfabeta.
I programmi di ricostruzione post bellica portarono ad un ridimensionamento del mondo contadino a favore di uno sviluppo esponenziale delle fabbriche e, conseguentemente, delle città, con grandi fenomeni migratori dal sud verso il nord e dalle campagne (che venivano abbandonate) verso le città (che venivano sovraffollate). Gli aumenti salariali di quel periodo, in parte dovuti al successo di grandi lotte sindacali, resero possibile una famiglia in cui, in linea di massima, i figli potevano frequentare la scuola anziché andare a lavorare. A partire dagli inizi degli anni ’50, la scuola pubblica – in tutta Europa e in particolar modo in Italia – registrò un incremento crescente che “esplose” negli anni ‘60, in cui si parlò esplicitamente di “scolarizzazione di massa”, fenomeno indubbiamente positivo che accompagnava il nostro paese verso una condizione di “capitalismo avanzato” (ed anzi ne era l’effetto).
Per la prima volta nella storia, in tutto il mondo occidentale (prima in America e successivamente negli altri paesi, con l’Italia in posizione di maggior arretratezza) milioni di giovani, terminati i doveri scolastici quotidiani, si trovavano nell’inedita condizione di pensare a loro stessi: leggere libri, incontrarsi liberamente, andare al cinema, teatro, socializzare, scambiarsi idee/opinioni sulla vita, sul mondo, sulle proprie esperienze, amori, preferenze musicali, politica ecc… Quanta differenza rispetto ai giovani di poche generazioni precedenti, costretti ad andare in guerra o a lavorare spesso all’età di 8/10 anni!
Ecco, è in questa inedita “condizione giovanile” che si farà strada pian piano, diffondendosi a macchia d’olio, una sensibilità e un pensiero critici, nei confronti del “mondo dei padri”. Val la pena di ricordare che intorno alla metà degli anni ’60 era diffusa presso gli hippies americani questa parola d’ordine, chiara e significativa: non fidatevi di chiunque abbia più di trent’anni. Tuttavia, sarebbe riduttivo considerare i profondi contrasti in atto in tutto il mondo occidentale (e non solo) esclusivamente entro i limiti di uno scontro generazionale. Certo, i giovani furono per molti aspetti i protagonisti principali di quegli scontri ma le rivendicazioni, i temi delle proteste andavano ben oltre. Ciò che veniva attaccato e rifiutato era il modello dell’ “american way of life”, perno della politica espansionistica e imperialistica americana.
I giovani capelloni, contestatori, hyppie, beat, intendevano vivere la loro vita in maniera diversa, fuori dalle logiche mercificatrici del mercato capitalistico. E molti volevano realizzare questa utopia subito, “qui e ora”, senza attese di futuri “momenti opportuni”. In California, poi in gran parte dell’America e successivamente in tutto l’occidente, i figli dei fiori costituirono delle comuni, alcune anche molto grandi, dove si viveva liberamente -spesso abolendo quasi totalmente il denaro come strumento di mediazione – praticando il libero scambio. Queste rivendicazioni radicali, come si può facilmente capire, impensierirono molto i centri del potere politico ed economico, proprio perché, arrivate ad essere un fenomeno di massa, si temeva che le parole d’ordine libertarie e contrarie al sistema (war is over, peace and love ecc…) potessero arrivare a “contaminare “ anche altri settori della società.
Gianni Martini
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